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I ribelli di Santa Libera

La trinità laica: Resistenza, Repubblica, Costituzione, che a più riprese viene declamata come un tutt'uno, quasi ogni passaggio fosse la conseguenza logica e inevitabile del precedente, non fu affatto un processo scontato. Lo Stato e la società che emersero dalla guerra rappresentano solo una delle possibilità espresse dalla guerra di Liberazione, solo una parte delle aspirazioni dei partigiani.

I pochi anni che intercorsero fra la fine della guerra e l'entrata in vigore della Costituzione italiana infatti videro in parte affermarsi, in parte crollare, le aspirazioni ad una società libera o comunque diversa da quella liberale che aveva favorito l'avvento del fascismo.
In quel contesto, un migliaio di partigiani del nord italiana tornarono in montagna, armati, decisi a rifiutare “di vivere in una Repubblica che mitraglia i contadini, libera i fascisti e mette gli operai alla disoccupazione”(Danilo Montaldi in Quaderni Piacentini n.56 Luglio 1975, pag. 71).
Un fatto è certo, quelli dal 1945 al 1948, furono anni meno 'lineari' e concordi di come solitamente vengono ricordati o immaginati. Anni che portarono in grembo futuri nodi della storia italiana, dai fatti del luglio '60 agli anni di piombo.

In buona sostanza si è soliti pensare al maggio 1945 come ad un fischio d'arbitro che segnò la fine delle ostilità, dopo il quale cominciò un'epoca esaltante e laboriosa di innovazione sociale, politica e di ricostruzione. L'unico neo sarebbe dunque il cosiddetto Triangolo della morte in Emilia, dove la componente di guerra civile della Resistenza non si placò a comando, tanto da costringere lo stesso Palmiro Togliatti a recarsi a Reggio Emilia e condannare quella resa dei conti autogestita.
Questa non è la realtà, almeno non tutta.
Alcuni capitoli del periodo post bellico infatti sono stati progressivamente accantonati da una storiografia asservita alla retorica politica, a partiti impegnati dal '45 al '55 a sedare gli istinti rinnovatori delle masse popolari e, dal '55, ormai avviato il processo democratico, a idealizzare e talvolta a mistificare la Resistenza.
Già nel dicembre del 1945 manifestazioni di scontento e protesta per alcune scelte politiche si registrarono in varie città del nord e centro Italia, ma fu il '46 l'anno che vide fiorire le rivolte partigiane del dopo Liberazione.
A poco più di un anno dalla fine della guerra, si erano registrate misure alquanto discutibili per una popolazione che aveva patito le crudeltà e le privazioni della dittatura e l'occupazione nazifascista.

Già nel '45 si erano verificati assalti di tipo squadrista in varie località. Lo stesso Giuseppe Di Vittorio denunciò tali episodi in Puglia e non solo, e settori dell'Anpi costituirono 'gruppi di difesa per il disarmo', per controllare la ricostituzione di gruppi di estrema destra.
Nel '46, con un provvedimento 'tecnico', ex partigiani vennero epurati dall'apparato poliziesco, che tornò ad essere composto da personaggi collusi con il passato regime.

In giugno venne varata l'amnistia Togliatti a favore dei fascisti. In novembre venne costituito il Movimento Sociale italiano, erede del fascismo di Salò, e Alcide De Gasperi affermò: “noi abbiamo indulgenza per i fascisti di buona volontà” (discorsi politici, Roma, 1976). Questo mentre i partigiani venivano emarginati e arrestati per atti commessi prima dell'8 settembre '43; mentre mancavano provvedimenti legislativi a favore degli ex deportati e proseguiva la schedatura dei 'sovversivi', in continuità con la metodologia del Casellario politico centrale.
L'ambiguità della neonata Repubblica si palesò ulteriormente nel 1953, quando venne emesso un indulto presidenziale per reati politici e fatti bellici commessi dall'8 settembre '43 al 18 giugno '46. Tale decreto, di fatto, equiparava fascisti e partigiani mettendo sullo stesso piano la scelta resistenziale e quella dei 'ragazzi di Salò'.

Nel 1946 quindi, in molti avevano già intuito che gli interessi e gli accordi politici ai vertici avrebbero usato la guerra come moneta di scambio e tentarono di opporsi.
La prima ribellione si ebbe in provincia di Asti nell'agosto del '46, rivolta che poi si estese a tutto il Piemonte. La scintilla venne innescata dalla destituzione da capitano della polizia ausiliaria del partigiano Carlo Lavagnino. Una trentina di poliziotti, ex garibaldini, si rifiutarono di ricevere ordini da un ufficiale fascista e insorsero. Guidati da Lavagnino, requisirono camion, armi e viveri, e si rifugiarono in montagna. Qui si congiunsero con una quarantina di altri ex partigiani già tornati alla macchia.

Nella notte fra il 20 e il 21 agosto, guidati da Armando Valpreda partigiano ed ex segretario dell'Anpi astigiano, i ribelli occuparono il paese di Santa Libera fra Cuneo e Asti, presto raggiunti da altri duecento partigiani, reduci ed ex deportati, fra cui il pluridecorato comandante garibaldino 'Primo', Giovanni Rocca.

I rivoltosi ci tennero a precisare che non avevano fini violenti, e comunicarono alla stampa le loro rivendicazioni: la costituzione di un corpo unico di polizia; la destituzione dei funzionari compromessi con il regime; l'assunzione al lavoro di reduci, sia partigiani che internati, senza limiti di percentuali; il mantenimento del blocco dei licenziamenti; l'abrogazione dell'amnistia.

Santa Libera stava rischiando realmente di spaccare l'unione delle forze del cosiddetto arco costituzionale.
A mediare con gli insorti andarono numerose personalità del mondo politico e culturale dell'epoca: Davide Lajolo redattore capo de 'L'Unità', Pietro Secchia vicesegretario del Pci, Cino Moscatelli leggendario comandante della Val Sesia, Enzo Giacchero esponente Dc di Asti. Parallelamente i ribelli stavano conquistando sempre più simpatie da parte della gente comune, e manifestazioni di solidarietà da parte di numerose sezioni Anpi.

Come riportato dallo storico Marco Rossi nella sua ricca ricostruzione dei fatti, lo stesso Pietro Nenni - all'epoca vice presidente del Consiglio - affermò: “la vicenda si è complicata perché con gli ammutinati hanno fatto causa comune partigiani della Liguria, del Piemonte, della Lombardia” (Marco Rossi, Ribelli senza congedo, zero in condotta, Reggio Emilia 2009 pag. 54).
Oltre alle regioni citate da Nenni, presidii e nuclei tornati alla lotta si registrarono anche in Emilia Romagna - nell'Appennino parmense e reggiano -, e in Toscana.

Solo in Piemonte le forze di polizia parlarono di circa 1.300 partigiani che avevano ripreso le armi.
Il 24 agosto una delegazione degli insorti, guidata dal comandante Rocca, incontrò Nenni a Roma il quale si impegnò ad accogliere le loro rivendicazioni, temendo l'estensione della rivolta.
Il 27 del mese i ribelli sciolsero il presidio di Santa Libera, sicuri anche di un'impunità promessa, ma che per Rocca, Valpreda e altri elementi di spicco non venne mantenuta.

Delle molte promesse fatte, vennero prese misure unicamente riguardanti norme a favore dei reduci e dei familiari dei caduti. Così, in ottobre, questa volta nel biellese, ex partigiani tornarono a sollevarsi portando alla ribalta le questioni politiche lasciate irrisolte dall'esperienza di Santa Libera: l'amnistia ai fascisti, l'emarginazione dei combattenti antifascisti, la mancata confisca dei profitti di guerra.
Se l'Anpi si era dimostrata comprensiva verso i ribelli di Santa Libera, in questa occasione sposò la linea del Pci di aperta ostilità.
La linea del Partito Comunista divenne sempre più dura, passando dall'attacco politico al collaborazionismo con i carabinieri nella repressione degli insorti.

Il governo rispose con la repressione e la demonizzazione dei portavoce dei ribelli, come ad esempio Carlo Andreoni. Le calunnie giunsero al punto che lo stesso Sandro Pertini intervenne pubblicamente a difesa dei sediziosi, molti socialisti.
Altri episodi di ribellione si registrarono fino alla fine del 1947, tutti ugualmente inascoltati.

Nella contingenza della ricostruzione, nella necessità dei partiti di accreditarsi e di conservare credibilità politica di fronte ai propri avversari e in politica estera, le rivendicazioni dei partigiani insorti ma ancor di più il loro profondo disagio nel ritrovarsi in una società che avevano sperato di costruire più giusta, fu incompreso dalla nuova classe dirigente.

Questa pagina della storia italiana rimase una ferita aperta, conosciuta con la definizione di 'resistenza tradita', con strascichi duraturi nella storia della Prima repubblica.
“...la Resistenza veniva condannata a vivere solo nel mito, nonostante la memoria e la volontà di chi l'aveva autenticamente vissuta” (M. Rossi, Idem, pag. 72).

Gemma Bigi

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