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Quei partigiani che fecero resistenza pensando al risorgimento

Domenica 10 Giugno 2012 si è svolta a Cuveglio, in provincia di Varese, la manifestazione promossa dal Comitato Provinciale per le onoranze ai Caduti del San Martino, nella ricorrenza del 69° Anniversario della battaglia (13-15 Novembre 1943). Qui di seguito l'intervento di Roberto Cenati, Presidente ANPI provinciale di Milano.

Ho accolto con molto entusiasmo l’invito ad essere qui e a tenere il discorso conclusivo in questa importantissima cerimonia. Costituisce un grande onore per me partecipare a questa commemorazione. Ma essere qui ha un altro e più importante significato non solo per me, ma per Milano perché molti dei combattenti e dei caduti nella battaglia di San Martino erano milanesi, a cominciare dal tenente colonnello Carlo Croce. Voglio ringraziare le autorità civili, militari e religiose presenti e tutti voi che partecipate a questa importante e significativa manifestazione. Un ringraziamento particolare alla dott.ssa Francesca Boldrini per il suo bellissimo e prezioso libro sulla battaglia di San Martino che offre a tutti noi spunti e motivi di riflessione su quella gloriosa vicenda.
La battaglia del San Martino è ricordata come l’episodio che diede inizio alla lotta partigiana nel Nord Italia e costituisce uno dei primi e significativi esempi di opposizione all’occupazione nazifascista. Se sul piano militare la battaglia del San Martino non ebbe successo, nonostante le gravi perdite inflitte alle truppe tedesche, non va dimenticato che la guerra partigiana muoveva i suoi primi passi. Alla formazione del colonnello Croce che si presentava come “Esercito italiano” mancavano ancora le conoscenze delle tecniche e della strategia della guerriglia adottate, in seguito, nel corso della Resistenza italiana. E’innegabile, tuttavia, che un risultato la formazione del colonnello Croce raggiunge: quello di creare insicurezza in tedeschi e repubblichini. E’ significativo che, se il redattore del Diario della Guardia di frontiera tedesca annota con soddisfazione la eliminazione di quell’importante nucleo partigiano, tuttavia deve ammettere che la sicurezza nella provincia di Varese non è ancora garantita. E il dubbio che non tutti i componenti della formazione Cinque Giornate avessero preso la via del forzato esilio in Svizzera accompagnò per molti giorni le autorità della repubblica Sociale Italiana.
L’omaggio che noi ogni anno rendiamo ai Caduti della battaglia del San Martino non è assolutamente retorico e formale. Rientra invece nel nostro dovere di affermare quel che di meglio abbiamo storicamente espresso e rappresentiamo, perché “l’identità, la consapevolezza storica, di un paese – sosteneva il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo intervento del 24 aprile 2010 alla Scala di Milano- traggono forza dalla coltivazione e valorizzazione di fatti, di figure, di simboli, in cui il popolo, in cui i cittadini possano riconoscersi traendone motivi di fierezza e di fiducia”. E il sacrifico del colonnello Croce e dei suoi uomini nella battaglia del San Martino costituiscono un esempio importante per tutti noi. Di questi simboli, di questi esempi sui quali si costruisce e si consolida la nostra identità nazionale abbiamo bisogno in questa delicatissima fase caratterizzata da una profonda crisi etica, da una crisi economica e sociale sempre più grave che sta pesantemente ricadendo sugli strati più deboli della popolazione e sulle giovani generazioni per le quali si prospetta un futuro molto incerto, soprattutto sotto il profilo occupazionale e dal ripresentarsi di pericolosi rischi eversivi come il gravissimo attentato (il primo contro una scuola) contro l’Istituto Morvillo Falcone a Brindisi che ha provocato la morte della giovanissima Melissa Bassi e dal ritorno di azioni terroristiche come la gambizzazione di Roberto Adinolfi, dirigente dell’Ansaldo Nucleare a Genova, rivendicata dalla Federazione anarchica informale.

Il tenente colonnello Carlo Croce
Il tenente colonnello Carlo Croce comandante del Gruppo San Martino che verrà insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria, è un ufficiale coraggioso e onesto, che sente anche formalmente l’impegno morale della Resistenza, scegliendosi un nome di battaglia come “Giustizia”.
E’ nel corso della campagna di Russia alla quale il colonnello Croce partecipa con il Corpo di Spedizione Italiano dal 30 luglio al 28 agosto 1942, che maturano i suoi sentimenti antifascisti ed antinazisti e comincia a vacillare la sua fede nell’alleanza con i tedeschi, come accaduto per altri importanti protagonisti della Resistenza italiana, come Nuto Revelli, inviato anch’egli nel luglio del 1942 sul fronte russo con il V reggimento alpini della divisione Tridentina.
In particolare tale maturazione ha inizio, nel corso del suo viaggio verso l’Unione Sovietica, quando il colonnello Croce si imbatte in una tradotta carica di Ebrei in fase di internamento, accatastati senza distinzione di età o di sesso, morti di stenti, freddo, fame, sete e questa drammatica visione lo induce a bollare come assassini gli alleati tedeschi.
Al momento dell’armistizio il Colonnello Croce non si adatta per i suoi sentimenti di antifascista e di antinazista, ad assistere ad una occupazione tedesca dell’Italia. Il colonnello decide così di asportare dal presidio del XVI Battaglione Avieri di Porto Valtravaglia cui è stato destinato a partire dall’11 agosto 1943, il maggior quantitativo possibile di materiale bellico, di viveri ed altro, e si mette alla ricerca di un posto adatto per costituire un reparto di volontari, decisi nella lotta antifascista. Lo trova sul San Martino, monte fortificato nella guerra del 1915-1918 e munito di una piccola caserma provvista di acqua potabile e di lunghi camminamenti sotterranei.

I milanesi nel Gruppo Cinque Giornate
Numerosi furono i giovani originari di Milano che si unirono alla formazione di Carlo Croce, provenienti dai quartieri popolari della città (Taliedo, Chiesa Rossa, Bicocca, Vittoria) o dai comuni vicini come Cinisello Balsamo così come diversi sono i caduti (fucilati dai nazifascisti o scomparsi nei lager tedeschi). Quasi tutti ventenni; tra i più giovani, Rossi Elvezio: aveva solo 17 anni.
Nelle Lezioni tenute a Milano nel 1965, nella ricorrenza del ventesimo anniversario della Liberazione, Francesco Scotti sottolinea con efficacia come, dopo l’occupazione di Milano da parte delle truppe tedesche avvenuta sin dal pomeriggio dell’11 settembre 1943 “con i mezzi più svariati cittadini di ogni ceto sociale, in prevalenza operai, soldati con alcuni ufficiali, prigionieri di guerra inglesi, canadesi, russi, jugoslavi, greci, antifascisti usciti dalle carceri dopo il 25 luglio, senza o con poche armi, si avviarono verso i monti del Lecchese, del Comasco, del Varesotto, altri verso l’Ossola e la Valsesia.”
Lo stesso capitano Enrico Campodonico, comandante il V gruppo della squadra di protezione antiaerea, cui dobbiamo la prima testimonianza sulla battaglia del San Martino, mentre avveniva l’occupazione di Milano da parte dei tedeschi, si prodigò ad occultare armi di ogni tipo, a raccogliere mine, ordigni ed esplosivi. Sottrattosi all’arresto, Campodonico, d’accordo con il cappellano Don Mario Limonta che era in collegamento col colonnello Carlo Croce, riesce a far trasferire il materiale bellico raccolto a Milano al Gruppo Cinque Giornate che egli stesso raggiunge.

Il Gruppo Cinque Giornate per il riscatto nazionale
La compagine partigiana del colonnello Croce, prevalentemente costituita da soldati sorpresi dall’armistizio e da numerosi prigionieri di guerra fuggiti dai campi di concentramento dopo l’8 settembre, risulta assai composita per formazione culturale, per appartenenza politica (vi sono comunisti, socialisti, democristiani, monarchici ed anche un anarchico), per estrazione sociale, per convinzioni religiose, eppure il comune traguardo elimina ogni differenza. La diversità è motivo di unione e non di divisione perché dalla diversità questi ragazzi sanno estrapolare incentivi di crescita.
La militanza nell’esercito che aggrega questi uomini è confermata nella dicitura del nome “Esercito italiano – Gruppo 5 Giornate” a voler sottolineare (manca significativamente nella dicitura Regio Esercito) che nel disfacimento generale delle forze armate italiane conseguente all’armistizio, parte di questo esercito ha saputo e voluto schierarsi contro imposizioni e oppressioni per ricostituire una nazione garante delle libertà e dei diritti dei cittadini.

Il motto del Gruppo Cinque Giornate e la difesa dell’Italia unita
Parte dai milanesi la decisione di scegliere il nome di Gruppo Cinque Giornate. E’ chiaro il richiamo alle Cinque Giornate di Milano (18-22 marzo 1848) nel corso delle quali intellettuali e popolo scacciarono gli austriaci. Questo legame dei milanesi con quel glorioso episodio del marzo 1848 è molto forte e sentito. Lo dimostra un fatto accaduto nel capoluogo lombardo subito dopo la proclamazione dell’armistizio. Il 9 settembre 1943 si costituisce a Milano la Guardia nazionale che raccoglie l’adesione di operai, impiegati, studenti, soldati sbandati, per difendere la città dai tedeschi e dai fascisti. “Facciamo di tutto – sostenevano i più decisi tra cui l’azionista Poldo Gasparotto che verrà trucidato dai tedeschi a Fossoli il 22 giugno 1944 – per impedire che i tedeschi occupino la città senza colpo ferire” E l’appello si concludeva con questa frase: “la Milano delle Cinque Giornate insorga, si salvi l’onore della città”. E’ molto significativo questo rapporto tra Risorgimento e Resistenza che si è voluto stabilire con la denominazione di Gruppo Cinque Giornate. La Resistenza chiamata non a caso, Secondo Risorgimento ha uno stretto legame con il Risorgimento, nelle dichiarazioni programmatiche, negli stessi nomi delle formazioni partigiane, nello spirito che animava i militari italiani che si opposero al nazifascismo. E il richiamo all’eredità risorgimentale fu componente importante della piattaforma ideale della Resistenza.
Essa quindi va strettamente collegata al Risorgimento, non soltanto perché bisognava insorgere per risorgere, come era proclamato nel motto di Giustizia e Libertà, ma perché essa, come Secondo Risorgimento, ha consentito di riunificare l’Italia. Dopo essere stata per 20 mesi tagliata in due, il 25 aprile 1945 l'Italia si riunifica, nella libertà e nell'indipendenza. Se ciò non fosse accaduto, la nostra nazione sarebbe scomparsa dalla scena della storia, su cui si era finalmente affacciata come moderno Stato unitario nel 1861, con il compimento del moto risorgimentale.
Il partigiano Giorgio Bocca che ci ha lasciato il 25 dicembre scorso, nel suo ultimo libro No Grazie uscito dopo la sua scomparsa osserva: “Che cos’è l’Unità d’Italia? Quelli della mia generazione lo hanno capito nel settembre 1943 quando Badoglio chiese l’armistizio agli alleati anglo-americani. Mai l’Italia si era trovata in condizioni così disastrose: al Nord i tedeschi di Hitler pronti a disarmare il nostro esercito, le nostre armate di occupazione della Francia meridionale e della Jugoslavia che scendevano in rotta dalle Alpi, il re e la sua corte in fuga a Brindisi, milioni di soldati deportati nei lager tedeschi, le province del Sud affamate, quelle del Nord nelle mani del peggior fascismo. Eppure mai come in quelle ore amare e disperate la sopravvivenza dell’Italia come nazione unita ci pareva indiscutibile.
Tutto era incerto, tutto disfatto e in rovina: eppure l’idea che fosse finita l’Italia come una nazione unita era assurda ai nostri occhi.”
Anche gli uomini del gruppo Cinque Giornate sentono fortemente questi valori. Quando il colonnello Croce, nell’imminenza dell’attacco dei nazifascisti fa schierare i suoi ragazzi sul piazzale del Forte e invita chi vuole ad andarsene, ha una risposta immediata dai suoi uomini che intonano tutti insieme l’Inno di Mameli.
E quando, dopo la ritirata, il Gruppo Cinque Giornate raggiunge il confine svizzero, nella località Ponte Tresa, il colonnello Croce giunto a metà ponte invita i suoi uomini a rivolgersi verso la patria che stanno lasciando, per l’ultimo saluto.

Il rientro in Italia dalla Svizzera
Dopo avere trovato rifugio in Svizzera una parte degli uomini del San Martino si mette a disposizione del colonnello Croce, decisa a rientrare in Italia. Avrebbero potuto continuare a rimanere lì fino alla fine del conflitto. Eppure in Svizzera non si sentono tranquilli, perché sanno che devono assolvere ad un importante compito: quello di liberare l’Italia dal nazifascismo. Non li spaventa ricominciare ad affrontare nuovi pericoli perché sentono quanto importante possa essere, alla causa italiana, anche un loro piccolo contributo: questo era il loro modo disinteressato, senza nulla chiedere, di porsi al servizio della collettività, del bene comune. Ma c’è un altro dato che va sottolineato e che contraddistingue il Gruppo Cinque Giornate: la sua straordinaria compattezza e unità. Non si sono mai create fratture tra chi aveva deciso di rimanere in Svizzera e chi non aveva avuto esitazioni a mettere in gioco la propria vita per la libertà: prevale la capacità di comprendere gli uni le ragioni degli altri. Dopo la liberazione tutti si ritroveranno e si riconosceranno come i partigiani del San Martino.

Il ruolo dei repubblichini
Un ulteriore elemento vorrei mettere in rilievo. Il contributo dei repubblichini nella vicenda del San Martino, come in tanti altri episodi della Resistenza italiana, si rivela determinante. Senza la loro collaborazione i tedeschi, da soli, non sarebbero riusciti ad arrestare, torturare e deportare nei campi di concentramento, tanti nostri concittadini. E’ un regime quello di Salò, ma questa considerazione va estesa all’intero periodo della dittatura fascista, che si instaura contro i valori della civiltà, di questa nostra civiltà che si basa sugli ideali che nascono con la rivoluzione inglese e francese, con il movimento operaio e democratico, che sono poi i valori della libertà (e non il disvalore della dittatura) i valori dell’uguaglianza, della democrazia e della solidarietà (contro il nazionalismo esasperato, la cultura della forza e della violenza, la subordinazione dell’individuo allo stato, il razzismo e l’antisemitismo che erano le bandiere dei nazisti e dei fascisti).Il parroco di Cuveglio, don Maio Bedetti, annota nel suo diario: “Sotto il regime fascista repubblicano si capiva che non vi era libertà e si viveva sempre in aspettativa di qualcosa di meglio”.
Il comando tedesco di Varese è costantemente informato di ciò che riguarda il Gruppo di San Martino attraverso relazioni e verbali di interrogatorio predisposti dall’Ufficio Politico Investigativo, struttura della Milizia volontaria, inquadrata nel dicembre 1943 nella Guardia nazionale repubblicana.
Il giorno dell’attacco i fascisti, supportati dai tedeschi, provvedono ad un capillare rastrellamento nei paesi posti alle pendici del San Martino, fermando ed arrestando tutti gli uomini dai 14 ai 65 anni, per eliminare qualsiasi possibilità di intervento della popolazione in favore dei partigiani. Gli uomini, trovati nelle case o incontrati per strada, sono rinchiusi in chiesa o in edifici pubblici. Coloro che risultano, in seguito a delazione, avere manifestato idee antifasciste o aver offerto collaborazione ai partigiani vengono interrogati sul posto e poi portati a Rancio Valcuvia. Lì, nella sede del municipio i tedeschi del 15° reggimento di Polizia dispongono il luogo principale del loro comando.

La solidarietà della popolazione
Un altro importante elemento che ha caratterizzato la Resistenza è stato il sostegno e la solidarietà della popolazione alle formazioni partigiane, come amava ribadire una straordinaria donna che recentemente ci ha lasciato, Nori Brambilla Pesce.
Gli uomini del colonnello Croce sono immediatamente identificati come i partigiani dalla popolazione. L’afflusso di aiuti, sia materiali sia in denaro da parte dei movimenti clandestini e di privati cittadini, non conosce sosta. Non c’è paese che non abbia dato il proprio contributo alla causa partigiana. La miseria imperante non impedisce, ad esempio, ad alcune famiglie di Duno di condividere con i partigiani la frugalità di pasti consumati prevalentemente presso alcune baite.

La solidarietà del clero
Anche sacerdoti, frati, suore sono state presenze determinanti per gli uomini della Resistenza. Numerosi sono i sacerdoti che aiutano gli uomini del San Martino, come Don Antonio Gatto di Duno, don Mario Bedetti parroco di Cuveglio, don Ermanno Somaini parroco di Cuvio, don Giovanni Olivieri, parroco di Mesenzana, don Alberto Marchesi, parroco di Arcumeggia, don Gioacchino Vannetti, parroco di Cassano Valcuvia, don Luigi Malcotti, parroco di Rancio Valcuvia.
Straordinarie sono le pagine di diario scritte da questi sacerdoti che raccontano dei drammatici giorni della battaglia di San Martino.
A ulteriore testimonianza della solidarietà della gente, i funerali dei caduti del San Martino si celebrano con la popolazione che ignora le disposizioni delle autorità fasciste e partecipa al rito. E’ una sfida pubblica intensa, di grande significato etico e politico.

La riflessione di Piero Calamandrei
Osservava Piero Calamandrei nel suo bellissimo discorso tenuto il 28 febbraio 1954 al Teatro Lirico di Milano, alla presenza di Ferruccio Parri: “Cercare cosa fu la Resistenza vuol dire indagare dentro di noi che cosa è rimasto di vivo della Resistenza nelle nostre coscienze; che cosa si è tramandato in noi di durevole e quotidiano da quel tempo che già par leggendario, e cosa ci sentiamo ancora capaci di tramandare di quel tempo a coloro che verranno dopo di noi: se veramente, da quel che di nuovo accadde allora nel mondo, qualcosa si è rinnovato dentro di noi, oppure se, chiuso quel periodo tutto è ritornato e ritornerà come prima. Mai come questa volta è vero che fare la celebrazione del passato vuol dire guardare dentro di noi e fare il nostro esame di coscienza”.
Credo che questo esame di coscienza sia quanto mai attuale oggi, nella delicatissima crisi non soltanto economico-sociale che stiamo attraversando.
“Non è questo il Paese che sognavo” è il significativo titolo del libro testimonianza del Presidente emerito della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, sulle sue vicende di combattente per la libertà.
Abbiamo però un punto fermo da cui partire: la Costituzione Repubblicana, nata dalla Resistenza, che Piero Calamandrei definiva come la Resistenza tradotta in formule giuridiche; Costituzione che garantisce l’esplicazione di tutti i diritti, civili, politici, sociali umani e che costituisce la guida e il punto di riferimento dell’intera vita del nostro Paese. Mentre ricordiamo i Caduti della Resistenza contro il nazifascismo, dobbiamo assumere l’impegno solenne a realizzare gli ideali per cui tanti sacrifici sono stati compiuti ed a tradurre nella realtà i principi e i valori contenuti nella nostra Costituzione, che va difesa e attuata, consegnando ai giovani la speranza di un futuro migliore.
Ciò significa anche impegnarsi e battersi per la realizzazione dell’unità politica e democratica dell’Europa,condizione indispensabile per combattere gli effetti nefasti della crisi, di un’Europa che, secondo la visione contenuta nel Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, dovrà essere unita non in nome di interessi mercantili, ma negli ideali della pace, della democrazia, della solidarietà, della giustizia.
“E’ la nostra vita – ricordava ancora Piero Calamandrei - che può dare un significato e una ragione rasserenatrice e consolante al sacrificio di coloro che hanno combattuto per la Libertà, e dipende da noi farli vivere o farli morire per sempre”.
Questo è dunque l’impegnativo compito che attende tutti noi.