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Radiografia dell'estrema destra europea

Pubblichiamo qui di seguito un articolo di Pasquale Martino, membro del direttivo provinciale dell'ANPI di Bari, comparso su «La Gazzetta del Mezzogiorno», il 27 novembre.

Quando consideriamo il panorama politico dell’Europa – immaginando i volti propositivi che il «gigante economico» assumerà negli scenari mondiali – non dovremmo trascurare la presenza strutturata di una destra estrema che si pone oltre i conservatori di Juncker e Merkel e offre un mix ideologico capace di aver presa sugli strati popolari.

Non ci riferiamo soltanto a forze euroscettiche e discretamente xenofobe come l’Ukip di Nigel Farage, vincitore delle recenti elezioni europee in Gran Bretagna (27,7%, primo partito), che ha costituito il gruppo parlamentare con il M5S italiano. Pensiamo soprattutto a una destra che ha radici neofasciste e neonaziste, o che dialoga con i neofascisti, li assimila, ne condivide i motivi ispiratori, dal nazionalismo all’antieuropeismo, alle teorie del complotto, alla xenofobia con esplicite venature razziste. Nel parlamento di Strasburgo siedono nove di tali partiti, senza contare gli altri che, non rappresentati nell’assise europea, hanno rilievo nei rispettivi paesi.
Si suole opportunamente distinguere fra l’estrema destra dell’Europa occidentale e quella dei paesi ex sovietici.

La prima ha attuato un’operazione di restyling per prendere le distanze dal neofascismo storico pur inglobandone i temi e arruolandone i seguaci. In questo senso il capolavoro riuscito è quello del Front National di Marine Le Pen (24% alle europee, primo partito in Francia) che ha le radici fra i nostalgici del regime di Vichy e gli ex coloni d’Algeria, ma adesso si racconta come forza-guida di una lotta «dal basso contro l’alto», conquistando ampi consensi in tutte le classi sociali. Manovra simmetrica e inversa rispetto a quella della Lega Nord, che dopo essere stata alleata di governo dei post-fascisti (handicap non da poco, rispetto al curriculum di opposizione del Front National), oggi si riqualifica paladina dei territori contro l’“invasione”e converge nelle piazze con i mussoliniani dichiarati di CasaPound. L’ultradestra occidentale in crescita di consensi si è liberata da retaggi imbarazzanti quali l’antisemitismo – che resta tuttavia sullo sfondo e nel retropensiero di tanta parte della “base”, attiva nei social network – e inoltre approva il governo israeliano.

Viceversa, l’estrema destra dell’Europa orientale non dissimula le nostalgie nazionalsocialiste. Il caso più recente riguarda la formazione ucraina Svoboda (Libertà) i cui militanti sono stati decisivi nella sommossa di Kiev che ha abbattuto il presidente filorusso. Comprimaria nel nuovo governo filo-occidentale con il vicepresidente e il ministro della Difesa, ridimensionata dal voto politico di un mese fa ma ancora in ballo nelle trattative per la costituenda compagine ministeriale, Svoboda dichiara di battersi contro la «mafia ebreo-moscovita» e onora come proprio eroe il collaborazionista Stepan Bandera che appoggiò i nazisti contro i russi. In generale, l’ultradestra est-europea – dalla Bulgaria alle repubbliche baltiche – celebra i vari «Quisling» che aiutarono i tedeschi (anche nello sterminio degli ebrei) come combattenti per l’indipendenza nazionale contro i sovietici.

Per loro il pericolo attuale non è l’Europa dei banchieri, ma l’ingerenza della vicina Russia. Una parziale eccezione è costituita dall’Ungheria, dove lo Jobbik o Movimento per l’Ungheria migliore (15% alle europee, secondo partito del paese) pur essendo all’opposizione fiancheggia il premier di destra Orban nelle sue politiche autoritarie, antieuropeiste e di apertura verso Putin. La destra di Budapest non teme il nazionalismo russo che si proietta esclusivamente sui paesi slavi; anzi, sogna a sua volta la «Grande Ungheria» che dovrebbe includere le minoranze magiare di Romania, Serbia, Slovacchia. Già legato alla disciolta formazione paramilitare della Guardia Magiara, Jobbik dimentica il sostegno dato dalle Frecce uncinate ungheresi all’Olocausto nazista e chiede che invece siano gli ebrei magiari a scusarsi per le vittime della rivoluzione comunista di Bela Kun nel 1919, appoggiata dagli ebrei stessi.

Ma ciò che accomuna tutta l’estrema destra europea, dalla Danimarca all’Austria, dalla Grecia alla Finlandia, è il richiamo a valori tradizionalisti declinati secondo una malintesa identità dell’Occidente cristiano; ed è soprattutto la visione apocalittica del fenomeno migratorio, l’ostilità contro stranieri e immigrati in quanto tali, in nome dell’integrità delle culture nazionali-locali e di una gerarchia dei bisogni sociali che dà la priorità ai nativi. Al razzismo biologico del XX secolo – bianchi contro neri, ariani contro semiti – è subentrato un razzismo etnico-culturale, che teme più d’ogni cosa il «multiculturalismo»: sinonimo odiato, un tempo, di marxismo ed ebraismo, equivalente oggi di integrazione, di tolleranza verso i Rom e specialmente verso gli immigrati di fede musulmana. L’islamofobia è il dato emergente – già in auge dopo l’11 settembre, rilanciato ora come reazione agli eccidi dell’Isis – tanto più preoccupante in quanto, se l’ultradestra ne è il portabandiera, l’opinione pubblica se ne mostra comunque largamente permeabile.

Ma qui non c’entra la legittima critica all’islamismo politico come esperienza storicamente determinata. Ciò che si demonizza è la presunta “essenza” immutabile dell’Islam, per cui il musulmano è sempre un potenziale terrorista e uno che comunque non potrà mai integrarsi nella “nostra” civiltà; si cede al pregiudizio e si perde il valore del dialogo, della relazione come cambiamento reciproco. Si perde anche la fede umanistica nella solidarietà fra lavoratori, quantunque di diversissima condizione, e nella scuola, che possono trasformare gli esseri umani, avvicinarli al di là di nazionalità e religione. Nascono le cosiddette guerre fra poveri, quasi mai spontanee, innescate da agitatori politici che strumentalizzano il disagio sociale.

Pasquale Martino