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Se ci giudicano i martiri della libertà

Questo l'intervento fatto al Campo della Gloria il 22 aprile da Roberto Cenati, vicepresidente vicario Anpi provinciale di Milano.

Sono qui, nel Campo della Gloria, raccolti ed incisi, i nomi e i dati dei 2.351 partigiani del Corpo Volontari della Libertà, degli ebrei milanesi perseguitati per motivi razziali, dei deportati politici morti nei lager tedeschi, dei militari dell’Esercito di Liberazione caduti nel territorio metropolitano, dei nostri soldati caduti nell’Egeo e dei militari caduti fuori dei confini nazionali.
Nei nomi è incisa e racchiusa una parte importante della storia del Secondo Risorgimento nazionale, la Resistenza, così come è menzionato nella motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare conferita alla nostra città.
Da ogni nome emerge la memoria di quelle unità italiane che cancellarono la vergogna del fascismo, che combatterono e caddero a Cefalonia, a Lero, a Rodi; dei nostri soldati che parteciparono, combattendo a fianco delle truppe alleate, allo sfondamento della linea gotica, e che nelle giornate dell’Aprile entrarono di slancio lungo la via Emilia; dei militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 e deportati nei lager tedeschi che preferirono la prigionia al ritorno in patria, subordinato alla loro adesione alla Repubblica di Salò; degli ebrei milanesi che videro spegnere la propria vita nei campi di sterminio nazisti; dei partigiani, delle partigiane, degli oppositori politici al regime nazifascista, degli operai deportati nei campi di concentramento a seguito degli scioperi del novembre-dicembre 1943 e del marzo 1944.
Notevole è stato il contributo e il tributo di sangue, per liberare il nostro Paese dal nazifascismo, da parte delle donne, senza le quali la Resistenza non sarebbe stata quel grande movimento unitario di massa che è stata.
Tra queste donne vorrei ricordarne una straordinaria: Suor Enrichetta Alfieri definita “l’angelo di San Vittore”che, insieme ad altre 11 suore, portò aiuto e conforto ad ebrei ed oppositori politici rinchiusi nel carcere di San Vittore, dopo l’8 settembre 1943.
Scoperta dai tedeschi, nel settembre del 1944, avrebbe dovuto essere fucilata, ma, la condanna viene convertita in deportazione in Germania per intervento del cardinale Schuster e, dopo 11 giorni di isolamento trascorsi nei sotterranei di San Vittore, in internamento presso l’Istituto Palazzolo a Grumello del Monte.
Suor Enrichetta verrà proclamata beata, il 26 giugno 2011, con una cerimonia solenne in piazza del Duomo.

Questo campo ci impone il dovere di ricordare quale è stato il durissimo prezzo di sangue e di sofferenze pagati, soprattutto, dalle giovani generazioni di allora, per riconquistare e ridare la libertà al nostro Paese.
Ricordare è un dovere, soprattutto di questi tempi, in cui la tentazione di cancellare queste memorie è ricorrente, spesso mascherata dalla strumentale necessità di una pacificazione universale mediante l’azzeramento del passato e la sua cancellazione, comprese le iniquità e le infamie del fascismo e della Repubblica di Salò, la cui storia e i cui simboli vengono ripresi e rivalutati da rinascenti movimenti neofascisti e neonazisti che anche a Milano, città Medaglia d’Oro della Resistenza, hanno cercato e cercano di trovare spazio.

La società contemporanea, nella quale registriamo la caduta sempre più preoccupante del costume sociale e dell’etica pubblica, celebra ogni giorno, il rito della provvisorietà, dell’effimero, dell’egoismo, del successo, della scomparsa della solidarietà. “Non è questo il Paese che sognavo” è il significativo titolo del libro testimonianza del Presidente emerito della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, sulle sue vicende di combattente per la libertà.
Occorre dunque un sussulto delle coscienze, un maggiore e forte impegno di tutti a difesa dei valori su cui si fonda la nostra Repubblica nata dalla Resistenza.
Ma proprio da questo campo ci giunge un monito: la memoria è il valore che ci può salvare, la testimonianza più autentica e più severa.
Memoria e storia sono il contrario dell’oblio che tende a pianificare tutto e a cancellare le differenze.
Fare memoria legandola alla conoscenza storica significa, non solo tributare il doveroso omaggio a chi ha sacrificato la vita per la libertà, ma far rivivere, nella società contemporanea, che sembra aver perso la propria identità, i valori della pace, della solidarietà, della giustizia sociale, della politica posta al servizio del bene comune e non di interessi di parte, che animarono i partigiani e i combattenti per la libertà.
Osservava Concettina Principato, figlia di Salvatore Principato, Martire di piazzale Loreto, che la Resistenza fu anche rivoluzione culturale di portata europea e contrapposizione di culture. Da una parte c’era la cultura della forza, della violenza, della subordinazione dell’individuo allo stato, il nazionalismo, il razzismo, l’antisemitismo, dall’altra la cultura della pace, della democrazia, della tolleranza, della solidarietà e la lotta per una società libera e giusta.
E l’eredità maggiore lasciataci dalla Resistenza è la Costituzione Repubblicana che Piero Calamandrei definì “Resistenza tradotta in formule giuridiche”, Costituzione il cui impianto, fondato sull’equilibrio dei tre poteri, esecutivo, legislativo e giudiziario, ereditato dalla tradizione dell’illuminismo francese, è alla base della nostra democrazia. Costituzione che va compiutamente attuata, eliminando il contrasto stridente tra i principi costituzionali e la durissima realtà, soprattutto per i giovani, costretti, se tutto va bene, ad accontentarsi di lavori precari e provvisori.

Abbiamo quest’anno celebrato e festeggiato il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. L’unificazione italiana ha rappresentato un’impresa storica straordinaria, per le condizioni in cui si svolse, per la portata che assunse, per il successo che la coronò. A partire dal 17 marzo 1861 l’Italia ha potuto affermare a voce alta, di fronte al mondo, la propria esistenza, il diritto che le apparteneva di essere indipendente, libera e unita, entrando così nella modernità e rimuovendo quelle barriere che precludevano quell’ingresso. Né si può dimenticare la significativa presenza, nel bagaglio risorgimentale, della generosa utopia degli Stati Uniti d’Europa.
La Resistenza, definita, non a caso, Secondo Risorgimento, si è ricollegata al Risorgimento, nelle dichiarazioni programmatiche, negli stessi nomi delle formazioni partigiane, nello spirito che animava i militari italiani deportati in Germania. E il richiamo a quell’eredità fu componente importante della piattaforma ideale della Resistenza.
Esiste quindi un legame molto stretto tra chi la Patria ha creato, gli uomini del Risorgimento, i Martiri delle Cinque Giornate di Milano e chi la patria ha difeso e liberato dall’oppressione nazifascista, gli uomini e le donne della Resistenza, come si può osservare dalla stessa motivazione della Medaglia d’Oro alla città di Milano.

E giustamente il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo discorso del 24 aprile 2010 al Teatro alla Scala ha sottolineato che “Il 25 aprile è non solo Festa della Liberazione: è Festa della riunificazione d'Italia. Dopo essere stata per 20 mesi tagliata in due, l'Italia si riunifica, nella libertà e nell'indipendenza. Se ciò non fosse accaduto, la nostra nazione sarebbe scomparsa dalla scena della storia, su cui si era finalmente affacciata come moderno Stato unitario nel 1861, con il compimento del moto risorgimentale”.

Se stretto è il legame tra i protagonisti del Primo e Secondo Risorgimento, lo è altrettanto quello con chi le istituzioni repubblicane ha continuato a difendere nei terribili anni della strategia della tensione e del terrorismo, che si riuscì a debellare grazie al solido ancoraggio della Costituzione e grazie alla forza di molteplici forme di partecipazione, sensibilizzazione e mobilitazione sociale e politica democratica.
Grande è stato il contributo e il sacrificio dei tantissimi servitori dello stato (agenti di Polizia, Carabinieri, militi della Guardia di Finanza, magistrati) che hanno pagato con la vita la loro lealtà verso le istituzioni repubblicane, nella lotta contro il terrorismo. Tra loro, in primo luogo, i dieci magistrati uccisi dalle Brigate Rosse e dalle altre formazioni terroristiche, come i giudici milanesi Emilio Alessandrini e Guido Galli caduti sotto i colpi di commando di Prima Linea.
Doveroso deve essere il nostro omaggio e il nostro riconoscimento verso questi servitori dello Stato e al ruolo fondamentale che la magistratura, nella sua indipendenza e autonomia, così come prevede la Costituzione repubblicana, ha svolto e svolge nel nostro Paese, nella difesa della legalità e delle istituzioni, contro mafie, terrorismo e criminalità organizzata.

Concludo con una citazione che, a mio avviso, è molto bella, significativa e adatta al grave momento che stiamo attraversando.
Ricordava Piero Calamandrei in un suo famoso discorso tenuto il 28 febbraio 1954 al Teatro Lirico di Milano: “Nelle celebrazioni che noi facciamo in occasione del 25 Aprile, noi ci illudiamo di essere, qui, vivi a celebrare i morti.
E non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi a un tribunale invisibile, a rendere conto di quello che in questi anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi, vivi.
In tutte le celebrazioni torna una verità elementare che nelle Lettere dei Condannati a morte è espressa come una naturale e semplice certezza: che i morti non hanno considerato la loro fine come una conclusione e un punto di arrivo, ma piuttosto come un punto di partenza, come una premessa, che doveva segnare ai superstiti il cammino verso l’avvenire.
Questa non è una frase retorica, non è un artificio pietoso destinato a consolare le madri di averli perduti: è che veramente noi sentiamo, quasi con l’immediatezza di una percezione fisica, che quei morti sono entrati a far parte della nostra vita, come se morendo avessero arricchito il nostro spirito di una presenza silenziosa e vigile, con la quale, ad ogni istante, nel segreto della nostra coscienza, dobbiamo tornare a fare i conti.
Quando pensiamo a loro per giudicarli, ci accorgiamo che son loro che giudicano noi: è la nostra vita che può dare un significato e una ragione rasserenatrice e consolante alla loro morte, e dipende da noi farli vivere o farli morire per sempre”.
Questo è dunque l’impegnativo compito che attende tutti noi.

Roberto Cenati, vicepresidente vicario Anpi provinciale di Milano