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1950, l'Italia povera ma bella

L’Italia dell’immediato dopo guerra, quella degli anni ’50, è una signora matura, un po’ segnata dalla vita, ma che con un sorriso consapevole si toglie energicamente la polvere dalle spalle e dalla gonna per tornare sulla pista da ballo.
Eccola, sfacciata, tornare alla ribalta con quello che ha: un abito lavato troppe volte e rammendato altrettante, scarpe con tutti i segni dei passi fatti e una esuberante voglia di rinascita. Si presenta così l’Italia all’appuntamento con la seconda metà di un secolo che non le ha portato che guai.
Porta con sé, oltre ad abiti rivoltati, tutte le sue contraddizioni: un popolo contadino che ancora aspetta terre e diritti; città gonfie di macerie belliche; una classe politica in cerca di alleanze ed equilibri che possano far guardare avanti il Paese.
Sfogliando le riviste di quegli anni, tutte sorrisi e positività, come se la ricostruzione fosse già storia, è palpabile il desiderio di vita rappresentato da giovani con lo sguardo scanzonato, modello Marlon Brando, e da ragazze, procaci, in bikini.
Le icone femminili sono, infatti, prosperose (le “maggiorate”) dalla faccia pulita anche se passionale come Lucia Bosè e Silvana Mangano. Hanno la veracità simpaticamente sensuale di Gina Lollobrigida e di Sofia Loren o l’intensa drammacità recitativa di Anna Magnani.

La donna, da sempre indicata come la custode della tradizione e dell’unità familiare, irrompe al cinema e nei romanzi di Alberto Moravia ed Elsa Morante con tutte le sue sfaccettature. E se il 1950 farà esplodere sul grande schermo la bionda Cenerentola della Disney – un cartone ormai entrato nella storia che continua ancora oggi a mietere invidiabili successi commerciali - Sanremo impone una giovanissima Nilla Pizzi, prima classificata al festival del ’51, con la canzone “Grazie dei fiori”, esattamente agli antipodi dell’infiammante rock‘n’roll di Elvis Presley che pure nelle balere furoreggia. Sta di fatto che comincia a farsi strada un’immagine nuova della donna: emancipata, lavoratrice, intellettuale, che si affermerà solo nei decenni successivi.
Tutte queste Italia della ricostruzione le ritroviamo in tre pellicole, uscite fra il ’50 e il ’51, che ci restituiscono il sapore di quell’inizio di modernità.
Un Paese sfacciato, feroce e indulgente, lo troviamo in “Napoli milionaria” di Eduardo di Filippo. Qui la vita di un vicolo napoletano durante la guerra viene raccontata con amara ironia. Si ritrova l’italiano arraffone, l’italiano imbroglione dal cuore grande corrotto solo dalla necessità di sopravvivere.
L’Italia che sogna, generosa e ottimista, la troviamo in “Miracolo a Milano”, nato dalla penna favolistica di Cesare Zavattini e trasposto sul grande schermo da Vittorio De Sica. L’incontro fra il surrealismo zavattiniano e il neorealismo del cineasta, crea un’opera poetica dove c’è tutta l’umanità di un popolo che può risorgere – o sopravvivere - solo attraverso l’immaginazione, mentre arranca nelle periferie cittadine alla ricerca di un lavoro e di un riparo per la notte.

Due letture complementari del carattere degli italiani arricchite da un terzo ritratto su pellicola, quello che immortala l’adattamento alle nuove regole del mercato e del successo. Si tratta di “Bellissima” di Luchino Visconti, con un’immensa Anna Magnani - nata sempre dalla penna di Zavattini -, mamma disposta a tutto pur di arrivare al successo e al benessere sfruttando la piccola figlia. Film grottesco, crudele, privo di quell’amore indulgente per il popolo proprio del neorealismo.
Tre film di disarmante attualità che restituiscono il clima, le contraddizioni e il carattere di un’epoca.
E mentre il cinema stigmatizza quello che era o avrebbe dovuto essere l’Italia, il Paese reale stenta a riprendersi dalle conseguenze della guerra e dell’occupazione nazista.
Mentre il fascino del modo di vita americano irrompe nell’immaginario europeo, con la categoria teen-agers che si impone con un modo tutto suo di parlare, di vestire e anche di mangiare; mentre ci si perde dietro alle ruote di Fausto Coppi e del rivale Gino Bartali, la vita reale è ben altra cosa.
L’Italia, nonostante le ambizioni della sua classe imprenditoriale e politica, ha un’economia legata all’agricoltura e si trascina antiche ingiustizie esasperate da vent’anni di fascismo.
Nel Sud Italia, presto seguito da altre regioni, braccianti e contadini occupano le terre incolte o trascurate dai latifondisti. Di fatto una guerra che ogni giorno lascia qualche vittima sul selciato, colpita per mano dello Stato che ordina alla polizia di reprimere duramente le lotte.
Nel 1950 si è tentata una sorta di riforma agraria, ma la sua insufficienza la rende sostanzialmente inefficace sul lungo periodo. I pezzi di terra espropriati e dati ai contadini infatti sono troppo piccoli ed economicamente poco utili, non tanto per le famiglie che ci vivono ma per l’economia nazionale.
In questo stesso periodo anche le fabbriche, alle prese con la riconversione post bellica, danno vita a lotte e proteste nelle città.
Emblematico, nel 1950, lo sciopero a Modena degli operai delle Fonderie Riunite in cui rimangono uccisi sei manifestanti per mano della polizia. Nello stesso anno e sempre in Emilia, quasi 5.000 operai occupano “Le Reggiane”. L’occupazione durerà 493 giorni e si concluderà con la sconfitta dei lavoratori, ma lascerà un segno indelebile per quella intensa forma di sostegno alimentare e di solidarietà dimostrata da tutta la città di Reggio Emilia, fino alle province più isolate e povere, verso i proletari in lotta.
Lavoratori protagonisti dunque della cronaca che portano alla nascita di due nuovi sindacati, Cisl e Uil, espressione della crescente necessità di rappresentanza delle classi povere.
Gli anni ’50 sono così anni di cambiamenti, di voglia di riscatto e di progresso. Anni di scontri e tensioni, mentre al di fuori dello stivale si dà inizio alla guerra di Corea e si allestisce quella indocinese.
E se il sogno di benessere fa resistere il popolo, è in questo decennio che vengono formati tanti nodi, ed esasperati altri preesistenti, che le contestazioni degli ’60 e ’70 porteranno al pettine.

Gemma Bigi

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