Salta al contenuto principale

La solidarietà dell'Anpi alla Francia. Smuraglia: garantire la sicurezza, respingere le speculazioni

Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell'Anpi

Ciò che è avvenuto a Parigi, nella notte tra venerdì e sabato, suscita un orrore infinito e una angoscia immensa per le tante vite spezzate, tra cui moltissimi giovani, nella dolorosa certezza che il macabro elenco dei morti sia destinato ad aumentare e nella speranza che la maggior parte dei numerosissimi feriti riesca a uscire da questa esperienza, recando con sè soltanto un ricordo terribile.
Questi moti dell'animo sono insopprimibili e devono resistere anche al decorso dei giorni e del tempo, per chiunque abbia chiara nozione di quanto grande sia il valore della vita umana e quanto deprecabile ogni atto di violenza che colpisca prima di tutto le persone.
Noi sappiamo che chi compie questi atti non ha alcun rispetto per la vita e per la persona; si spara nel mucchio, non solo per fare presto, ma per convincerci che nessuno può sentirsi al sicuro. In un contesto del genere, la vita, la persona, i sentimenti, la felicità, la gioia e l'allegria non esistono: c'è solo la cupa immagine di chi è pronto perfino a rinunciare alla propria vita, se è necessario, per raggiungere un obiettivo pazzesco, nel quale la vita degli altri non conta nulla.
Non dobbiamo dimenticarlo. Tutto questo, senza querimonie, senza isterismi e senza indulgere troppo sulle scene più strazianti. Per chi ragiona, basta molto meno per provare l'orrore e il desiderio spasmodico di fare il possibile perché questi drammi non possano avvenire mai più, pur con la consapevolezza atroce che, invece, si ripeteranno ancora e ci saranno altri disperazioni, altri lutti, fino a quando non si risveglierà la ragione.
Questo è il senso del dolore e dell'orrore, che non tollerano schematizzazioni e insistenza sui particolari nel descrivere il peggio. Un dolore e un orrore simili possono oggi essere leniti solo da un gesto che è accaduto e che ci richiama al senso dell'umanità: una donna appesa disperatamente ad una finestra che grida e una mano sconosciuta che l'afferra e la salva. Qui c'è tutto il senso del confronto che non possiamo non fare tra chi dà consapevolmente la morte e chi crede alla solidarietà ed al valore inestimabile della persona. Finché ci saranno gesti di questo genere, potremo avere la speranza che l'umanità e la solidarietà riescano a trionfare.
Tuttavia, non c'è orrore, non c'è dolore, per quanto grande, che non richieda - per assumere un significato vero – una riflessione seria e adeguata. Ed è quella che in questi giorni, pur col cuore ed i sentimenti sconvolti, dobbiamo riuscire a fare, resistendo anche a qualche impulso spontaneo ma improduttivo.
C'è una guerra in atto, diversa da tutte le guerre che abbiamo, purtroppo, conosciuto (ed alcune, vissuto); diversa, certamente, dalla guerra tradizionale dove sono due o più nemici che si scontrano con i loro eserciti e il fatto che ci vadano di mezzo, talvolta, anche donne e uomini che non vestono una divisa e non impugnano un'arma, è deprecabile, ma pur “secondario” rispetto al dato principale.
Qui non c'è nulla di tutto questo; non c'è un nemico facilmente identificabile, non ci sono eserciti tradizionali in campo. Siamo di fronte a una guerra con connotati che non corrispondono neppure alle altre forme assunte, nel tempo, dalla violenza e dalla contrapposizione di idee e/o interessi, visibili e percepibili facilmente, perché non si tratta neppure di ritorsioni o di rappresaglie (ricordate la vicenda di Charlie Hebdo?), ma di atti che, in altri tempi, sarebbero stati definiti come “gratuiti”.
Diversa perfino rispetto al terrorismo “classico”, quello che nel mondo si è sperimentato in questo scorcio di secolo e in una parte di quello precedente. Un terrorismo che colpiva specifici obbiettivi, anche sbagliati, ma pur sempre obiettivi definiti, in nome di una idea, di un fanatismo, di un fondamentalismo, insomma di qualcosa che si poteva percepire e dunque anche combattere con (relativa) facilità.
Siamo di fronte ad una situazione nuova anche rispetto a quel tragico 11 settembre di New York, dove c'era un'evidente organizzazione, una provenienza definibile ed un obiettivo altrettanto percepibile. Questa è una situazione, in qualche modo, ancora più perversa. C'è un “Califfato” che si autoproclama come Stato, ci sono forze e mezzi militari che uniscono all'orrore di alcuni atti individuali, quello di vere e proprie battaglie, di esecuzioni di massa, di “vittorie” conseguite colpendo vite umane incolpevoli e solo indirettamente coinvolte in un ipotetico conflitto e talora rivolgendo la furia distruttiva su beni artistici di inestimabile valore. Ma c'è, accanto a tutto questo, anche una sorta di esercito invisibile, sparso in varie zone e in vari Stati e capace di colpire, dall'interno – senza una vera logica ed un qualsiasi collegamento – in luoghi svariati, con massacri di valore simbolico e ammonitivo.
In un limitato lasso di tempo, c'è stato l'assalto a Charlie Hebdo, del gennaio scorso, a Parigi, l'attentato in Tunisia, l'attentato (ormai sicuro, per quasi tutti, come tale), contro l'aereo russo, precipitato, in mille pezzi, in Egitto; ed ora questo mostruoso, molteplice attentato in varie zone di Parigi, diretto contro persone inermi, intente a seguire uno spettacolo o un concerto e addirittura tentato contro uno stadio, pieno di folla (per fortuna quest'ultimo, non riuscito).
Tutto questo sembra fatto per dire che nessuno può stare tranquillo da nessuna parte ed in nessun momento della sua vita; che non c'è un nemico preciso, individuabile, contro cui si spara, ma c'è una folla in qualche modo anonima, come quella di Parigi, o quella che viaggiava sull'aereo russo, “utilizzata” per un sacrificio che sarà di ammonimento per tutti.
Qualcuno ha detto che è una guerra “globale”. Può darsi, ma solo nel senso che è diretta verso un bersaglio globale, perché ognuno può essere colpito o dall'esercito dell'ISIS nei luoghi ove esso è impegnato, oppure da una schiera non identificata né identificabile di persone disposte a tutto, per creare insicurezza nel mondo e dimostrare che c'è solo una forza invincibile, l'ISIS.
Di fronte ad un fatto del genere, tutte le guerre che conosciamo, in Africa ed in altre parti del mondo, scolorano, perché nessuna di esse riesce ad assumere questo carattere di intimidazione e di violenza “globale”, in nome di qualcosa che è addirittura peggiore di un “fondamentalismo“ classico.
Come si reagisce ad una “guerra” del genere? Certo, come tutte le “novità”, anche questa non consente ricette predefinite; ma di alcune cose possiamo già essere convinti e certi.
La prima è che, se vogliono intimidirci e renderci insicuri, la cosa peggiore da fare sarebbe quella di cedere e rinunciare a fatti ed eventi già predisposti (penso, per esempio, al Giubileo), perché questa sarebbe una prima, sicura, vittoria di questo inafferrabile nemico.
La seconda è che non dobbiamo cedere alle paure e chiuderci in casa; le manifestazioni subito avvenute in tante parti d'Italia, al di là del dolore e della partecipazione commossa, dimostrano proprio questo, che c'è voglia di reagire, di non farsi chiudere nel recinto delle paure, di impegnarsi contro gli assassini, anche se alcuni di loro possono assomigliare al vicino di casa ed apparire “normali”.

E fin qui, si tratta delle cose che competono a noi, cittadine e cittadini, che amiamo la libertà, respingiamo la violenza, la sopraffazione e l'intimidazione. Ma poi c'è ben altro, e questo compete agli Stati, a chi ci governa, a chi – insomma – dovrebbe “governare” il mondo, almeno su una base comune, quella del rispetto dei diritti umani. Molti Stati, compreso il nostro, hanno già adottato misure di sicurezza, intensificato i servizi di controllo, allertato i presìdi nei luoghi più simbolici; va bene ma, certo, occorre ancora di più, proprio perché uno dei “simboli”, il peggiore in un certo senso, è costituito proprio, dall'eccidio di massa, dall'assassinio di persone inermi, che mai potrebbero o dovrebbero costituire un obiettivo. Si impone allora un collegamento fra gli Stati e soprattutto fra i loro servizi segreti. Si sono già viste, in varie occasioni, falle clamorose nei presìdi di sicurezza, come a Sharm-el-Sheik, o anche, con ogni probabilità, a Parigi. Un collegamento forte e stretto fra i servizi aiuterebbe certamente a “prevenire”, ad individuare per tempo i soggetti pericolosi, ad apprestare quanto necessario, anche con l'aiuto dei cittadini e delle Autorità locali, per individuare le fonti sospette e foriere di tempesta.
C'è ancora di più, alla fine. Qui entra in campo la politica, quella con la “P” maiuscola, che ancora non si riesce ad intravvedere, a livello europeo e mondiale, riducendosi spesso a mosse isolate, non adeguate alla bisogna, in alcuni casi generiche e in altri, addirittura avventate. Si è avuta l'impressione, più volte, in Libia, ma poi anche in Iraq, in Siria, in Medio Oriente, che ognuno si adoperasse per combattere il “nemico”, ma in realtà, perseguendo un proprio interesse, talora non compatibile con quelli degli altri e, in ogni caso, da essi indipendente. Ci vuole una “politica europea” e ci vuole un politica mondiale. Bisogna finirla con l'idea che con i bombardamenti si risolve tutto ed, a maggior ragione, con il sistema che ognuno bombarda per conto proprio (e per ragioni sue). Questo, non serve a nulla, neppure contro la forma più organizzata (il Califfato), ma a maggior ragione contro il “nemico” isolato, diffuso, che colpisce all'improvviso, in questo o quel Paese. Se non si costruisce un fronte veramente compatto, che contrapponga alla violenza mortale e alla volontà di dominare il mondo, una barriera che sappia al tempo stesso muoversi sul terreno militare e su quello dell'intelligence, avremo altri lutti e altri attentati e continueremo a disperarci, senza costrutto. È possibile, è necessario, realizzare, almeno su questo, una vera unità di intenti, senza retropensieri e senza interessi più o meno confessabili. Se questa “guerra” è contro tutti, occorre che siano proprio “tutti” a reagire, a impegnarsi, perché solo così si può pensare di vincerla. E si deve vincerla, in nome dell'umanità, della solidarietà e della fratellanza. Parole forse nuove per alcuni governanti, che hanno perso, anche in Europa, l'abitudine di usarle, ma che dovranno crescere nella mentalità collettiva degli Stati e dei cittadini di tutti i Paesi del mondo. Insomma di fronte al fenomeno drammatico di giovani che si esaltano e uccidono sulla base di princìpi inesistenti, bisogna riaffermare il contenuto ed il significato dei valori veri, quelli della nostra democrazia e della nostra civiltà.
Certo, ha ragione Claudio Magris, quando ci ammonisce che “la violenza va repressa con la violenza, ma anche esorcizzata con l'insegnamento del rispetto reciproco”, e, se posso permettermi un'aggiunta “con l'insegnamento dell'esigenza assoluta di rispetto dei diritti umani, delle ragioni della cultura e delle ragioni della civiltà”.
So che tutto questo rappresenta un impegno nuovo e diverso rispetto al passato e che per perseguire simili obiettivi bisogna riuscire a mettere da parte, tutti, una serie di pregiudizi e di interessi personali (di singoli e di Stati). Se davvero si tratta di una guerra “globale”, l'unica risposta sicura non può che essere, a sua volta, “globale”.
Voglio soffermarmi un momento, prima di concludere, su un altro aspetto, estremamente pericoloso, che può essere determinato (e lo è già in qualche modo) da vicende come quelle di cui stiamo parlando.
La Polonia, per fare un esempio, ha già dichiarato che “di fronte a questi fatti, non si possono più accettare stranieri” e non è certamente un caso isolato. Sono in molti ad avere interesse a inserire il “nemico” invisibile, in un'area ben precisa, che è quella dei migranti. Non importa che già sia dimostrato che fra gli assassini emergono figure di cittadini europei, francesi, belgi e così via; la speculazione è troppo a portata di mano perché non ne approfittino i razzisti, gli xenofobi di sempre. Io sono d'accordo che qualche misura vada presa, prontamente, da tutti gli Stati per accelerare, al massimo, le procedure di identificazione e riconoscimento di chi vuole entrare in un Paese che non è il suo. A questo si sarebbe dovuto provvedere da un pezzo, nell'interesse di tutti; ma ci sono ritardi enormi. Questa è una misura da adottare finalmente dagli Stati europei se davvero temono l'ingresso di soggetti pericolosi e “non identificabili”.
Al di là di questo, che corrisponde a razionalità e perfino a ragioni umanitarie (oltre a quelle di sicurezza), non c'è alcuna ragione per opporre barriere a tanta gente che fugge proprio da violenza, terrorismo, fondamentalismi e guerra. Chi specula su questo dimostra, ancora una volta, il suo vero volto che è solo sempre quello del razzista; e come tale va trattato. E il razzismo, come è noto, è - assai spesso – anche l'anticamera del fascismo. Bisogna rispondere, dunque, anche con un lavoro di grande informazione e di formazione culturale, per impedire che certe idee, spesso non spontanee ma incrementate e diffuse ad arte, attecchiscano, sulla scia dell'orrore e della paura. Anche sotto questo profilo, ci incombe il dovere della chiarezza.
Il nostro ruolo, quello di una Associazione che si basa sui valori fondanti della nostra Repubblica, è quello di pretendere, con forza, che si faccia tutto quanto necessario per garantire la sicurezza dei cittadini, senza cedere di un millimetro di fronte alle intimidazioni ed agli assalti; rendendo evidente, nel contempo, che occorre anche la collaborazione e l'impegno fattivo di tutti, cittadine e cittadini e c'è anche – e va sottolineato con forza – il dovere di respingere, con altrettanta forza, i tentativi di chi pensa di approfittare di una drammatica “guerra mondiale”, del tutto innovativa rispetto alle precedenti, per realizzare i loschi obiettivi che sono tipici del peggior razzismo.