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Quando lo sport si fa propaganda politica

Pensare alla storia dello sport come una materia scolastica è un'interessante proposta avanzata qualche tempo fa da due esperti del settore, Sergio Giuntini e Felice Fabrizio, dalle pagine di un quotidiano nazionale. Tanti gli spunti che offrirebbe un simile approccio didattico, soprattutto per l'apprendimento della storia contemporanea e per una riflessione sull'attualità.

Oggi che le guerre si combattono in sordina, il più possibile lontano dai media, è solo attraverso le gare sportive che, soprattutto in occidente, l'amor di patria torna a dividere gli animi con le divise di diverso colore, le tribune separate e l'orgoglio per le vittorie portate a casa sotto forma di medaglie e primi posti. Celebrazioni del calendario civile a parte inoltre, è proprio in queste occasioni che i colori e le bandiere dei vari stati sventolano dai balconi o fanno bella mostra di sé nelle maglie alla moda ispirate alle tenute degli eroi moderni: gli sportivi.
È una passione tutta novecentesca quella per le competizioni atletiche, del secolo, insomma, dove le guerre fra nazioni furono ideologiche più che strategiche, combattute sui campi di battaglia più che a tavolino dai diplomatici.
L'agonismo sportivo in un certo senso rappresenta un surrogato del combattimento, un'occasione per dimostrare valore e prestanza fisica, per creare l'identificazione del singolo nel campione di turno, massimo rappresentante delle virtù patrie.
Così, nel '900, lo sport finisce per essere territorio funzionale alla politica e alla propaganda nazionalistica.

Nel 1934 e nel 1938, nel pieno della dittatura fascista, il trionfo azzurro ai mondiali di calcio divenne vanto del regime che glorificò le doti dell'uomo italico, degno erede degli antichi romani.
Non fu da meno Adolf Hitler, che delle Olimpiadi del '36 fece un evento promozionale della Germania nazionalsocialista. Certamente imbarazzanti furono in quell'occasione le vittorie di Jesse Owens, l'atleta statunitense e per di più di colore che guadagnò ben quattro medaglie d'oro. Ma all'epoca il regime nazista voleva ancora accreditarsi sulla scena internazionale e, imbarazzo a parte, non ci furono episodi di discriminazione verso l'atleta come vorrebbe la leggenda.
Nel corso del '900 infatti tanti sono gli aneddoti con cui è stata condita la storia sportiva, proprio in relazione ai regimi dittatoriali. I catalani sostengono ancora ad esempio che Francisco Franco intervenisse in prima persona per favorire l'acquisto di calciatori capaci per il Real Madrid a scapito del Barcellona, quando ormai lo spirito indipendentista della Catalogna si poteva esprimere solo allo stadio.
La “guerra fredda” è a sua volta una riserva inesauribile di verità e finzioni in ambito sportivo, ambito in cui il conflitto politico traslocava raggiungendo livelli parossistici di agonismo, come palesò il doping di stato nella Ddr, ossia la Germania est, e in Cina, e i boicottaggi delle dispute olimpiche da parte di Usa e Urss, rispettivamente nell'80 e nell'84.

Lo sport dunque usato come vetrina per rivendicazioni ideali e ideologiche. L'esempio principe fu il pugno chiuso con il guanto nero sollevato nel 1968 alle Olimpiadi del Messico da Tommy Smith e John Carlos, rispettivamente medaglia d'oro e d'argento ai 200 metri. I due atleti afroamericani rivendicarono in mondovisione l'adesione al movimento delle Black Panters, che lottavano per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti, il paese in cui i trionfi sportivi erano (e sono) per lo più merito della gente di colore.
E come dimenticare lo scandalo provocato a livello mediatico dal gran rifiuto di Muhammas Ali, al secolo Cassius Clay? Il pugile si vide sottrarre il titolo di campione mondiale dei pesi massini e stroncare la carriera per il netto rifiuto a combattere in Vietnam; lui, mito della nobile arte per la quale servono coraggio, forza e intelligenza, doti del perfetto soldato; lui, uomo di colore.

Che le dispute sportive internazionali rappresentino sia un surrogato alla guerra armata sia un'efficace vetrina è però dimostrato soprattutto da due eventi: la protesta delle Madri di plaza de Mayo ai mondiali di calcio di Buenos Aires nel '78 e il massacro di Monaco alle Olimpiadi estive del '72.

La dittatura militare argentina diede il massimo per ripulirsi in occasione della disputa internazionale. Tante le troupe televisive giunte nella capitale per seguire le rispettive squadre. Tante, troppe, poiché una sfuggì al rigoroso programma di spostamenti. I giornalisti olandesi infatti preferirono intervistare quelle donne attempate con dei fazzoletti in testa che, ogni giovedì, si ritrovavano in piazza. Fu così che lo scandalo dei desaparecidos e del regime militare occupò i media di tutto il mondo, favorendo la crisi della dittatura.
Diverso invece per drammaticità e conseguenze il fatto di Monaco, quando l'intera squadra olimpica israeliana venne uccisa dall'organizzazione palestinese “Settembre nero”, a cui fece seguito un crescendo di vendette reciproche.

Tuttavia non mancano esempi dello sport usato per unire e integrare. Il rugby ad esempio fu uno degli espedienti usati da Nelson Mandela, una volta divenuto presidente del Sudafrica dopo 27 anni di carcere, per superare l'odio che divideva la popolazione nera da quella bianca. Il leader anti-aparteheid vide nello sport nazionale il modo per unire non solo formalmente il paese. Se non fu un successo su tutta la linea, fu senz'altro un inizio.

Tanti dunque gli spunti che possono venire pensando allo sport che, grazie soprattutto ai media, potrebbe essere una chiave di lettura del secolo più controverso della storia mondiale: il '900; un approccio interessante soprattutto per chi non riesce ad appassionarsi alle cronache da manuale scolastico.

Gemma Bigi