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L'uomo che visse all'inferno

È morto Shlomo Venezia.
È morto nella notte fra domenica e lunedì a Roma, il 1 ottobre 2012.
È morto ma non sembra vero. Sarà che la sua voce e le sue parole, dolorose e ferme, sono qui.
Shlomo aveva 88 anni, e da un po' di tempo non stava bene ma uno come lui, che è passato attraverso l'inferno, scottandosi, ed è tornato per raccontarcelo...bè, non ti aspetti che possa andarsene. Eppure lo ha fatto, delicatamente, nel sonno.

Ogni testimone è prezioso e insostituibile, ma con lui viene meno il racconto diretto di una verità scomoda e per questo motivo ancora più necessaria. I suoi interventi erano sconvolgenti non solo per quello che raccontavano, ma perché a farlo c'era un uomo in carne ed ossa che quegli orrori li aveva vissuti, e vissuti come pochi altri.

Shlomo Venezia, deportato 182727, era uno degli ultimi, e pochi, sopravvissuti del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau. Compito principale di questa unità speciale, per la quale venivano selezionati uomini robusti e forti, era condurre i prigionieri nelle camere a gas e, dopo, portare i cadaveri ai forni crematori. Portare donne, bambini, parenti, amici...
Squadre composte interamente da detenuti, periodicamente soppresse per “nascondere le prove” circa la soluzione finale, ovvero lo sterminio del popolo ebraico.

Shlomo era uno dei pochi sopravvissuti di queste unità, l'unico in Italia, una dozzina nel mondo.
“Tutto mi riporta al campo. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre allo stesso posto. (…) Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio.” Queste le ultime parole del suo libro “Sonderkommando Auschwitz”, in cui ha raccontato senza veli quello che fu il suo compito nel periodo di internamento.

Una “colpa” difficile da portare, perché ogni reduce dai campi di sterminio non è, come ci ha insegnato Primo Levi, uno che si è salvato ma uno che annega. Un sommerso, perché è così indicibile l'orrore e il senso di vergogna per essere ancora vivo, e di esserlo a scapito di altri, che si soffoca giorno per giorno, con quelle immagini sempre davanti agli occhi. Un vivere che ti fa sentire carnefice oltre che vittima.
Per Shlomo non fu facile dire l'orrore, quella responsabilità, quel ruolo, anche perché troppo crudele per chi ascoltava e stentava a credergli. Lo fece molto tempo dopo il suo ritorno, nei primi anni '90, quando scritte dal sapore nazista contro ebrei imbrattarono i muri di Roma, città in cui viveva. Iniziò così un racconto che indirizzava sempre ai più giovani. Era diretto Shlomo, con il suo dire essenziale, oltre il quale chi lo ascoltava non poteva andare. Il gusto dell'orrido, le domande dolorose, quelle le evitava, come per pudore e difesa della propria intimità.
Fu arrestato con la famiglia (madre, fratello e tre sorelle) a Salonicco nel 1944, in aprile, e subito deportato in Polonia. Oltre a lui, uscirono vivi da Auschwitz anche il fratello e la sorella maggiore, che rivedrà solo nel '57.

A dare la notizia della sua scomparsa è stato il sito web del Museo della Shoah di Roma, con queste parole: “Ci ha lasciato un caro amico che ha dedicato gli ultimi decenni della sua vita a trasmettere la memoria della Shoah alle giovani generazioni”. Un compito che sentiva come un dovere.
Questo il messaggio che inviò alla festa nazionale Anpi a Marzabotto: “Il mio saluto grato e caloroso alla grande festa dei partigiani. Festa di gioia e di lotta affinchè la memoria di quanto è stato diventi patrimonio di tutta la democrazia e delle giovani generazioni”.

Gemma Bigi