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Pagliarulo: "Portiamo avanti in tanti la sfida di Carlo Smuraglia: la piena attuazione della Costituzione"

Era meno di un anno fa, il 30 maggio, quando Carlo se ne è andato. Ho avuto l’onore di ricordarlo nella camera ardente e successivamente, il 12 ottobre, con Gaetano Azzariti, Olivia Bonardi, Paolo Pezzino e Silvia Pinelli a Roma presso la sede del CNEL. In quelle circostanze ho provato a disegnare, per quanto era nelle mie conoscenze e nella mia sensibilità, un ritratto a tutto tondo di una personalità che non era per me soltanto un partigiano e un grande dirigente antifascista, ma anche, e per alcuni aspetto specialmente, un compagno e un amico. Una personalità che era per decine di migliaia di antifascisti un esempio, e soltanto il cielo sa quanto oggi nella vita civile e politica manchino coloro che forniscono esempi. Non ripeterò perciò una serie di considerazioni di ordine biografico, politico, personale e, consentitemi, affettivo sulla figura di Carlo, anche perché mi pare che la riflessione che stiamo svolgendo sia essenzialmente tematica perché riguarda la vita e l’opera di Carlo Smuraglia e la Costituzione repubblicana. Affronterò perciò esclusivamente questa questione ed esclusivamente per ciò che riguarda gli anni in cui Carlo è stato Presidente nazionale dell’ANPI. 
Ho riletto in questi giorni tanti articoli di Carlo ma specialmente la grande parte dei volumi da lui curati, a proposito di Costituzione, e mi sono reso conto di una sua particolare capacità di anticipazione di processi che sono avvenuti successivamente e che mi pare stiano giungendo rapidamente e forse traumaticamente a maturazione. Assieme, ho percepito le maglie strette che legavano il suo pensiero in ogni suo aspetto, al punto che i tre grandi temi del suo impegno sociale, istituzionale e politico, e cioè il lavoro, l’antifascismo e la Costituzione, costituiscono di fatto un unicum. 
Vedete, parlare dell’attualità del pensiero di Carlo non è una frase di circostanza. Voglio esattamente dire che la sua elaborazione ci serve qui ed ora come strumento di impegno e di lotta civile imprescindibile. 
La sua critica analitica al fascismo non si è limitata al suo scendere in armi come partigiano al tempo della Resistenza, ma ha costituito un filo di ricerca e di impegno continuo che ebbe un punto particolare nel lavoro da lui svolto sul tema delle stragi nazifasciste del ’43-’45 da cui partì la costruzione del cosiddetto “Atlante delle stragi”. Mi riferisco al fatto che Carlo pose la massima attenzione al tema della complicità dei fascisti nelle stragi dei tedeschi. “Abbiamo ormai una documentazione più che sufficiente – scrisse in quella circostanza nel 2013 – per affermare che a quelle stragi hanno partecipato in moltissimi casi le organizzazioni fasciste della repubblica di Salò”. 
L’anno successivo, nel 2014, l’ANPI promosse un convegno sul tema del contrasto ai neofascismi e in quella circostanza Carlo approfondì una tematica su cui sarebbe tornato ripetutamente, e cioè quella della natura integralmente antifascista della Costituzione, non riducibile cioè solamente alla XII disposizione finale; tale disposizione a mio avviso non è una aggiunta, ma è una rigorosa conseguenza dell’integrale impianto antifascista della Carta. A partire da questa considerazione Carlo avanzava una critica che sarebbe diventata serrata nel lungo documento presentato al Presidente della Repubblica, sulla necessità di portare pienamente e finalmente a compimento la natura antifascista dello Stato.
Carlo scrive che siamo faticosamente riusciti a costruire una nazione, con uno spirito di appartenenza “ma – e qui cita il Sabino Cassese del tempo - non abbiamo mai costruito lo Stato, uno Stato che corrisponde ai princìpi della Costituzione”. Questo vuol dire che la cultura costituzionale non è mai pienamente penetrata nei gangli dell’amministrazione pubblica, delle forze dell’ordine, della scuola, della magistratura e così via. Sia chiaro, sono stati fatti dei passi in avanti, ma siamo ancora lontani da una piena e specialmente concreta costituzionalizzazione dello Stato. In sostanza l’impegno per uno stato pienamente antifascista è ad oggi un terreno di lotta politica.
Credo che questo sia un tema che meriterebbe uno specifico approfondimento, perché riguarda la natura dello Stato unitario e il suo rapporto con la società. A ben vedere questo tema data dai tempi del Risorgimento, definito da Gobetti “Risorgimento senza eroi”, una “mera conquista regia”. Si tratta forse di un giudizio troppo radicale, tant’è che Gramsci, pur ritenendo il Risorgimento una “rivoluzione mancata”, sostenne che favorì l’unificazione della penisola, vide cioè il chiaroscuro e non soltanto i lati negativi. Eppure, a conferma dei limiti della formazione dello Stato unitario, basta pensare alla tara della questione meridionale - a quel tempo il mancato coinvolgimento delle masse rurali - che dall’unità ad oggi, sia pure in forme molto diverse, è rimasta una costante del nostro Paese, ed a maggior ragione si manifesterà tale ove si addivenisse davvero alla prevista autonomia differenziata. 
Ma più in generale l’irrisolto tema del rapporto tra Stato e società si è riproposto ai tempi della prima Repubblica, quando il sistema dei partiti è sostanzialmente riuscito a svolgere un ruolo di cinghia di trasmissione, oltre che di formazione civile e di promozione della partecipazione popolare; fu in particolare dagli anni 60 fino alla fine del decennio successivo che il nostro Paese ebbe una sorta di primavera costituzionale; poi dalla cosiddetta seconda Repubblica ad oggi la funzione dei partiti si è progressivamente smarrita riproponendo con pesantezza una distanza fra Stato e popolo o, se preferite, fra masse e potere, che si è incarnata simbolicamente nell’astensionismo di quasi il 40% degli elettori in occasione delle politiche del 2022 e del 60% degli elettori nelle recenti amministrative del Lazio e della Lombardia.
In sostanza, una discontinuità della Repubblica con lo stato fascista e con lo stato liberale prefascista è in gran parte avvenuta, ma la vera e propria rottura dichiarata dalla Costituzione del ’48 non si è realizzata, penso anche in ragione di una epurazione che ci fu in minima parte dell’immediato dopoguerra, complice un’amnistia governata da una magistratura tutt’altro che liberata dalle persone e dalle culture che si richiamavano al fascismo. 
Quello che ci rimane oggi è una vischiosità inquietante e pericolosa che può portare, dico simbolicamente, a sentenze contraddittorie ad apparente parità di reati, come per esempio il saluto romano, a vere e proprie sospensioni della democrazia come avvenne a Genova nel 2001 alla presenza – non dimentichiamolo – dell’allora vice presidente del consiglio Gianfranco Fini nella sala operativa della Questura di Genova, oppure a comportamenti autoritari e repressivi un po’ goffi e provinciali come le reazioni del ministro Valditara alla oramai famosa lettera della preside del liceo fiorentino Michelangiolo.
Tutto ciò mette a tema, oggi più di ieri, l’impegno per una riforma dello Stato di tipo pienamente antifascista in particolare dal punto di vista della formazione degli apparati pubblici, tanto più se si considera che siamo in una fase, a giudicare da alcuni comportamenti del governo, di restaurazione. 
Aggiungo che ciò che colpisce nelle riflessioni di Carlo in quel convegno del 2014, è una sua affermazione sul futuro dell’Italia e del continente quando scrive che “Siamo noi e tutta l’Europa materialmente seduti su un potenziale vulcano. Il rischio che si vada a finire a destra, verso forme autoritarie e populiste, è sempre presente”. Infatti, oggi è al governo per la prima volta dal dopoguerra una coalizione di destra a egemonia sovranista e postfascista. Sia chiaro, aggiungo, che Carlo non aveva affatto una visione schematica della realtà e tanto meno era privo della capacità di distinguere: scriveva nel 2020, quando già nei sondaggi si stava potentemente affermando la destra radicale, “troviamo troppo semplificatorio la scelta di definire tutti fascisti e troppo rischioso fare un grande calderone di tutto ciò che di male presenta la società moderna”. 
Insomma, Carlo ci ha invitato a utilizzare lo strumento dell’analisi differenziata e anche in questa circostanza ha dimostrato una singolare dote di chiaroveggenza. Davanti a questo governo mi pare che ci stiano due scuole di pensiero entrambe in errore, la prima che denuncia l’esistenza di un governo fascista tout court, pur criticando giustamente provvedimenti, comportamenti e simpatie autoritari; la seconda che, minimizzando tali provvedimenti e comportamenti, nega non solo che l’attuale sia un governo fascista, ma sottovaluta i rischi di una deriva autoritaria.
Sarebbe ingannevole sottovalutare le biografie filofasciste di tante personalità, a cominciare dalla Presidente del Consiglio, e sarebbe pericoloso negare scelte e comportamenti che rivelano una vocazione autoritaria e repressiva, ma sarebbe altrettanto allarmistico parlare di un fascismo in atto al potere. Non certo il fascismo storico, che aveva legittimato la violenza come forma legittima, necessaria e prevalente della politica. E tantomeno il fascismo come moderno governo dittatoriale, o i fascisti come partito milizia. Se quindi è allarmistico parlare oggi di un fascismo al potere, è altresì disarmante non vedere preoccupanti segnali che possono rinviare a quella storia, a quella cultura, a quello che uno storico di estrema destra del fascismo, Marco Tarchi, chiama il sentimento fascista. Siamo invece davanti a mio avviso un conservatorismo di tipo nuovo, estremo e radicale, spesso oscurantista, con cui dobbiamo fare i conti. 
Se è vero quindi che siamo fra coloro che sono sospesi, se è vero che è eccessivo lanciare un vero e proprio allarme, è altrettanto vero che occorre manifestare una preoccupazione e che tale preoccupazione negli ultimi mesi è cresciuta sia in rapporto a una serie di scelte del governo, sia in rapporto alle proposte di presidenzialismo che sono state avanzate e, per altro aspetto, che non riguarda direttamente il fascismo, allo stato di lavorazione dell’Autonomia differenziata.
In un prezioso intervento in un corso di formazione del 2013, a proposito di Costituzioni, Carlo accenna alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e ricorda l’art. 16 ove si dichiara che “ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione”. Aggiungo l’epigrammatica frase dell’art. 4: “La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri”. 
Se la separazione dei poteri è il fondamento di ogni costituzione ed in particolare di una costituzione di natura liberale, la proclamazione delle libertà affiancata alla definizione del loro limite, apre la porta a una costituzione sociale. La due cose – badate bene – si integrano. 
“Il lavoro fu posto a fondamento della Repubblica – scrive Carlo – mentre l’impresa fu regolata in materia diversa, perché non veniva riconosciuta né come fondamento né come vero e proprio diritto, ma come libertà, subordinata però a una serie di condizioni, delle quali una è quella dell’utilità sociale”. L’iniziativa economica privata è libera, recita l’art. 41, ma “Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all'ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. E qui si misura tutta la lontananza del testo costituzionale dalla realtà quotidiana. 1089 morti sul lavoro nel 2022. Sottolineo lo scarto – scusate l’iperbole – stratosferico fra il dettato costituzionale, cioè gli articoli 1, 2, 3, 4 e tutto il Titolo III, sui rapporti economici, e la crudissima realtà attuale. Mi pare che dal punto sociale questo, in ultima analisi il tema del lavoro, sia il cuore del problema dell’attuazione della Costituzione.
Se posso permettermi di aggiungere una riflessione, sono sempre rimasto colpito dalla straordinaria mobilità che la Costituzione attribuisce alla Repubblica perché essa nei principi fondamentali riconosce e garantisce, riconosce e promuove, tutela, e ancora promuove. Non è una classica costituzione liberale che propone una visione statica di diritti e doveri. Ma ciò che colpisce di più è il secondo comma dell’art. 3, che, diversamente dagli altri articoli a cui ho accennato, non recita “la Repubblica rimuove gli ostacoli” ma recita “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli”. C’è qualcosa di cogente, di obbligatorio in questa consapevole diversità che caratterizza l’articolo 3 dagli altri articoli di questa, chiamiamola così, Repubblica in perenne movimento. Ed è, mi pare, in questo articolo che si scioglie virtuosamente la classica contraddizione fra libertà ed eguaglianza ove la prima è intangibile a condizione che non neghi la seconda. Ed è anche evidente il nesso fra il tema del lavoro, di cui parla Carlo e il tema dell’eguaglianza. 
L’altra questione su cui si sofferma Carlo riguarda la divisione dei poteri, ove afferma che l’idea di dare più poteri all’esecutivo “è un’idea profondamente errata, da respingere con forza, perché non c’è alcuna ragione per rafforzare un esecutivo che ha potuto pienamente fare tutto quello che ha voluto”. A dieci anni da queste sue parole la situazione si è profondamente aggravata. Non mi riferisco solo al tentativo di variazione degli equilibri di potere fallito con il referendum del 2016 anche grazie allo straordinario impegno proprio di Carlo Smuraglia che si propose e ci propose, - affermò - di scalare una montagna con le mani. La scalammo e la conquistammo. 
Mi riferisco alla ben più pericolosa proposta presidenzialista che scardinerebbe l’intera struttura costituzionale consegnando al Presidente un potere straordinario in quanto eletto dal popolo. Non entro nel merito, e tantomeno nei paragoni con altri sistemi presidenziali. Mi interessa dire che qui ed ora, con questa nostra storia nazionale, con queste forze di governo, la scelta presidenzialista modificherebbe a cascata una serie di compiti, funzioni e specialmente poteri, relegando in un angusto cantuccio il Parlamento laddove la terapia per la grande ammalata, la democrazia italiana, è l’esatto contrario: restituire al Parlamento il potere della rappresentanza e la rappresentanza del potere. E’ infatti questo il grumo che impedisce la ricostruzione non solo di un rapporto, ma persino di un terreno di comunicazione tra Stato e popolo.
Siamo sempre nel 2013 quando Carlo denuncia la riforma del Titolo V che – scrive – “ha provocato un forte contenzioso tra Stato e Regioni” e quando ribadisce l’intangibilità dell’art. 5. E guardate oggi, quando con l’autonomia differenziata, nella forma che sta prevalendo grazie alle decisioni del Consiglio dei Ministri, si arriverebbe non solo a una disparità nella quantità e nella qualità della fruizione dei servizi sanitari e scolastici, ma presumibilmente a una frantumazione dell’unità nazionale laddove alle Regioni a statuto speciale si aggiungerebbe l’istituzionalizzazione di Regioni ad autonomia differenziata rendendo così la differenziazione non più l’eccezione ma la regola del sistema regionale. Va da sé che la lontananza fra Nord e Sud si accrescerebbe in modo esponenziale.
Se leggo l’insieme dei testi di Carlo a proposito di Costituzione mi colpisce il suo ricorrere a due parole chiave: persona e dignità. Credo che queste parole rappresentino l’anima della Costituzione e dunque l’esatto contrario di quel «tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato», di mussoliniana memoria che riduceva il cittadino ad un tassello, ad una semplice rotella di uno stato onnipotente, onnipresente e, per alcuni aspetti, addirittura trascendentale. 
Ma contemporaneamente persona e dignità sono anche l’esatto contrario dell’individuo della società liberista, la società della signora Thatcher, in cui l’individuo è tutto e la società non esiste, come disse – credo nel 1987 - e a sua volta quell’individuo che dovrebbe essere tutto in realtà non è niente, perché è un consumatore prima che un cittadino, è un numero prima che un nome e un cognome, è capitale umano prima che essere lavoratore, è, per dirla con il ministro Piantedosi, carico residuale prima che essere naufrago. 
L’individuo liberista è un Odisseo: il suo nome è nessuno. Viceversa la persona è sempre nominata; è Gianfranco, è Massimo; e la persona e la sua dignità esistono perché sono in rapporto con altre persone, perché non sono concepibili da soli. Lo scrive bene Carlo: “la persona considerata non è come una monade isolata, ma anche nelle formazioni sociali in cui si svolge e si sviluppa la sua personalità”. “Questo concetto di persona costituisce il nerbo e la sostanza principale dello spirito costituzionale”, aggiunge. Ecco la Costituzione antifascista che propone un modello di società opposto a quello del regime, un modello democratico e non gerarchico, e che contrappone al mercatismo dominante la visione di un nuovo umanesimo. 
Mi avvio a concludere. Carlo cita Calamandrei: “Le Costituzioni sono fatte non tanto per i tempi sereni, ma per i tempi di caduta, di regresso, di difficoltà”. Questo è il nostro tempo. Ed è il tempo in cui rammentare un’altra parola di Calamandrei, quando scrisse della Costituzione come di una rivoluzione promessa. Nel 75° anniversario del varo della Carta va messo a tema quanto di quella promessa è stato mantenuto, quanto è stato rimosso, quanto è stato dismesso. E, assieme, per questo va rilanciato e se mi è consentito in gran parte ricostruito un pensiero unitario costituzionale, una teoria dello Stato e della società che quel testo giuridico esprime e che in particolare negli ultimi decenni è stato compresso e marginalizzato. 
Proprio ora, nel momento di maggiore difficoltà e di caduta, non ci si può limitare a una battaglia di difesa, non ci si può limitare al contrasto, pur sacrosanto e necessario, all’autonomia differenziata e al presidenzialismo, non ci si può limitare alle giuste polemiche contro le fascinazioni autoritarie di questo o quel ministro, ma da queste critiche e da questi contrasti va ripreso il filo della unica e vera riforma costituzionale, che consiste nella sua piena e integrale attuazione, una vera e propria rivoluzione costituzionale che paghi il debito di quella rivoluzione promessa da Calamandrei tanti anni fa. 
Uso volutamente queste parole - riforme e rivoluzione - un tempo non lontano termini ricorrenti nel dibattito politico delle forze democratiche e del movimento operaio, ed oggi capovolti nella neolingua dei media e di una politica spesso irriconoscibile: la parola  riforme, che nel 900 indicava un cambiamento teso a migliorare la situazione sociale, è oggi prevalentemente utilizzata per definire un cambiamento in peggio, ma necessario, per la situazione economica, perché lo chiede l’Europa, oggi semmai per l’economia di guerra. La parola rivoluzione, prima indicante un cambiamento rapido e radicale della situazione esistente, oggi è utilizzata come specchietto per le allodole nella comunicazione pubblicitaria, per una nuova automobile o un nuovo rasoio o un nuovo I-pod, o, peggio ancora, come prospettiva politica: è la Meloni che parla di rivoluzione conservatrice, un termine che nacque in contrasto con la Repubblica di Weimar e che secondo alcuni studiosi rappresentò il terreno di coltura del nazionalsocialismo.
Sappiamo bene che si può aprire una stagione in cui l’insieme della Costituzione può essere messo sotto scacco, dati i rapporti di forza parlamentari. Ma proprio per questo penso che dobbiamo andare oltre il semplice gioco di difesa, uscendo dall’angolo e contribuendo a costruire una larghissima soggettività sociale che ponga a tema la piena realizzazione della Costituzione.
Concludo. Ecco la grande sfida di cui Carlo Smuraglia ha analizzato gli elementi nel corso della sua vita ed in particolare negli ultimi vent’anni, e su questo si è impegnato in ogni modo e in ogni luogo. Un esempio, ho detto all’inizio. Ed ecco fra i tanti un punto speciale di merito che gli va riconosciuto. Carlo è stato un grande presidente, ed un grande italiano, aggiungo, anche per questo. E credo che il miglior modo di ricordarlo sia quello di continuare con rigore, il suo rigore, sulla strada che ha tracciato. Carlo parlava spesso di memoria attiva come capacità di trasferire i valori della Resistenza nel lavoro civile, sociale e politico. Ecco, la forma più coerente di memoria attiva ancora una volta si riconosce nell’impegno che mettiamo e promettiamo nella difesa e nell’attuazione della Carta. È vero, la situazione è difficile. È vero, viviamo un tempo molto duro. Ma qui ci occorre un altro insegnamento di Carlo. Uso le parole di Martin Luther King: “Occorre fare degli ostacoli che incontriamo dei punti di partenza”.

Gianfranco Pagliarulo
Sestri Levante, 11 marzo 2023