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Una scuola di libertà

Questo il testo del discorso di Irene Barichello, a conclusione della manifestazione svoltasi a Milano per celebrare il 70° della Liberazione.

Care concittadine e cari concittadini, tutti qui presenti a festeggiare il settantesimo 25 aprile dell’Italia liberata dal nazifascismo, porto a voi, a tutte le autorità e ai rappresentanti delle associazioni il mio saluto; mi chiamo Irene Barichello, ho 33 anni e sono un’insegnante, non sono una partigiana, ma sono un’antifascista, e l’antifascismo non ha età, perché poggia sui valori e i principi intramontabili che strutturano la nostra Costituzione.

Il compito di parlarvi qui, proprio oggi – 70 anni dopo – mi onora e mi emoziona, e perciò spero sarete indulgenti con me; ma è anche un compito che non si può rifiutare: ogni cittadino di questa Repubblica ha il diritto e il dovere di trovare le parole per celebrare la rinascita del suo Paese sulle fondamenta della Resistenza. È a noi che non abbiamo, allora, né combattuto, né visto che tocca scegliere e parlare adesso, se vogliamo che non finisca. Prepariamoci, dunque, con serietà e coraggio.

«Aldo dice 26x1», è questa la parola d’ordine che 70 anni fa il CLNAI concordò per dare il via alle insurrezioni nelle grandi città del Nord. E a Milano, il 25 aprile 1945, la Liberazione fu anche riappropriazione di uno spazio urbano: riconquistato l’Hotel Regina di via S. Margherita – sede della polizia nazista –; riconquistati i locali di via Rovello in cui operavano i torturatori della famigerata legione Muti; libere anche le fabbriche, motore dell’insurrezione e della Resistenza stessa fin dal marzo ’43. Libera Piazza Duomo: è bello vederci qui, tantissimi, e sapere che chi vuole può starsene a casa; anche per questo il 25 aprile è festa per tutti: “per chi c’è, per chi non c’è, e per chi ci è contro”, per dirla con Arrigo Boldrini, “Bulow”.

La democrazia è meravigliosa e difficile proprio perché prevede il dissenso, la minoranza, la critica. È comodo ma pericoloso sperare nelle scorciatoie antidemocratiche che, in Italia e in Europa, ci vengono proposte e ottengono consensi: le destre nazionaliste e xenofobe, con un copione sempre identico, di fronte alle crisi anziché cercare soluzioni autentiche e stabili, additano colpevoli e capri espiatori. Ma come si fa a non lasciarsi incantare? Come ci si forma all’antifascismo, come si insegna? Occorre una premessa che sgombri il campo dalle critiche qualunquiste che tacciano i termini “fascismo-antifascismo” di anacronismo.

Il fascismo non è solo il lugubre Ventennio della nostra Storia; fascismo è qualsiasi idea politica che ruoti attorno alla violenza e della violenza faccia una prassi politica per giungere al dominio sull’altro. Ne consegue, quindi, che antifascismo e Resistenza non sono parole buone solo per il periodo ’43 e il ‘45 in Italia, ma hanno vita più lunga, perché la resistenza deve guardare di volta in volta alle più progredite forme di annichilimento e mortificazione […] dell’uomo […].

La resistenza, come dice il sociologo Mantegazza, è sempre «in progress». Resistere contro chi, ieri oggi e sempre, minaccia le libertà individuali, nega la giustizia sociale e discrimina i cittadini è ancora una lotta, un lavoro lungo che richiede impegno e forze enormi, certo, ma – avrebbe detto qualcuno – è una prova che può riempire degnamente una vita. Questo lavoro parte anche dalla scuola. Nella scuola italiana c’è l’ora “Cittadinanza e Costituzione”: tra gli obiettivi ci sono la costruzione del senso di legalità e responsabilità, la conoscenza della Costituzione e dei suoi principi, in particolare i diritti inviolabili dell’uomo: la libertà e la pari dignità sociale. Anche l’insegnamento storico della Resistenza è efficace a formare una cittadinanza consapevole nelle nuove generazioni; questo insegnamento risponde a due obiettivi: il primo è la ricostruzione storica, attraverso l’uso critico delle fonti, degli avvenimenti di quei 20 mesi; il secondo è l’educazione all’uso della memoria (di cui ormai si fa uso e abuso pubblico), considerando le memorie diverse e divise che ancora incidono sul nostro presente, per giungere poi a un giudizio storico su contesti e motivazioni di quelle memorie contrastanti.

La Resistenza, pertanto, può divenire un banco di prova per esercitare l’uso critico della ragione e confrontarsi con valori forti. Ma per fare questo occorrono due cose: una seria e rigorosa formazione degli insegnanti, sui quali lo Stato deve decidersi ad investire (e intendo proprio denari e che siano spesi bene: il progresso di un Paese si misura anche dal suo bilancio!); e una società in grado di apprezzare adeguatamente il ruolo fondamentale della scuola e dei suoi lavoratori, cui va attribuita – socialmente ed economicamente – quella autorevolezza di cui il mestiere di insegnante gode nei Paesi più civilizzati.

È pensando anche a queste necessità che il Miur e l’Anpi hanno sottoscritto un protocollo volto a promuovere lo studio della Costituzione e della Resistenza nelle scuole, per divulgarne i valori e gli ideali di democrazia, libertà, solidarietà e pluralismo culturale. Nonostante la politica investa poco e male nella scuola, grazie alla buona volontà di molti insegnanti (troppi, ricordiamolo, vergognosamente costretti alla precarietà), la miglior parte della nostra società cresce fra i banchi di aule troppo spesso sgangherate: si vaccina al razzismo con la conoscenza dell’altro, al fascismo con il sapere.

La scuola insegna così a essere onesti piccoli cittadini, orgogliosi di una Costituzione nata dalla Resistenza che, lungi dall’essere fino in fondo applicata, occorre sempre più salvaguardare dai tentativi di sabotaggio. Ma la scuola non può farcela da sola a immaginare e rifondare una società migliore su questi principi, se poi nella nostra Repubblica si lascia che movimenti neofascisti (ammessi e tollerati anche nelle liste studentesche di moltissimi istituti) impediscano, per esempio, agli alunni italiani di etnia Rom di recarsi alle loro scuole, se già all’indomani della Liberazione si è consentita la presenza, anche in parlamento, di partiti ispirati al fascismo, se in moltissime delle nostre istituzioni hanno conservato a lungo i loro posti di potere uomini collusi con la dittatura fascista, se il Governo concede onorificenze agli ufficiali della RSI! E poi non dimentichiamo l’art. 54: anche la corruzione, l’abuso d’ufficio, il falso in atti pubblici sono tradimenti della Costituzione!

La scuola cosa può fare da sola?! Occorre che tutta la società dia corpo alle conoscenze che la scuola trasmette, che ne sia modello non smentita! Il punto è che insegnare a resistere non è soltanto far apprendere bene la Storia, insegnare a resistere significa esplorare i meccanismi profondi dell’indignazione che scuotono lo stomaco degli esseri umani degni di questo nome. Ecco ciò per cui saremo sempre a corto di manuali: come si insegna lo sdegno? Come si educa ad essere sensibili, umani? Non ci sono libri per questo. Serve di più, attorno alla scuola: serve, se non una buona società, almeno l’idea, il desiderio di essa; occorre che gli adulti per primi si sbarazzino della loro cinica rassegnazione ad un presente da razziare il più in fretta possibile per restituire a sé stessi e soprattutto ai più giovani un’occasione di futuro. Anzi, e parlo ora proprio ai ragazzi di questa piazza, vi dirò di più: non siete voi che avete bisogno di imparare a resistere e a indignarvi: non voi, non i partigiani ultraottantenni ancora tra noi. Chi deve imparare a resistere è forse la generazione del boom, che ha dato per conquistate una volta per sempre libertà pagate col sangue, che ha scoperto insieme all’appagamento che dà il benessere anche la paura di perderlo. E la paura cancella l’arte dello sdegno: la paura di perdere potere, denaro, lavoro rischia di far accettare qualsiasi compromesso, porta a vedere nell’altro una minaccia (e il più becero populismo cavalca queste fobie!). I giovani no, la giovinezza non conosce paura, perché è incosciente, audace, generosa e fiduciosa di sé e dell’altro. La Resistenza fu giovane e incosciente: non bastò a fermarla nemmeno la paura delle torture (parola che non avremmo più voluto sentir nominare in questo Paese!), dei plotoni d’esecuzione sulla sua schiena.

I più grandi insegnanti sanno che talvolta può mancar loro una risposta o la pazienza, ma di una cosa non debbono mai mancare: della fiducia totale nei loro studenti. Concetto Marchesi, rettore dell’Università di Padova (M.O. Valor Militare), fu un formidabile maestro: nel novembre ’43 si appellò ai giovani italiani perché liberassero e ricostruissero il loro popolo e il loro Paese. Qquale enorme responsabilità, quale vitale compito quest’uomo ha con fiducia affidato ai suoi studenti e ai giovani italiani? Nemmeno per un istante egli ha dubitato delle loro capacità. Credo che molti giovani, oggi, vorrebbero sentire nei propri confronti la stessa fiducia, vorrebbero venisse loro affidato con la stessa generosità il proprio avvenire. Immaginatevelo allora il vostro avvenire, anzi leggetelo: c’è un futuro intero nella nostra Costituzione che aspetta il vostro fiato e le vostre gambe per farsi presente. E il cuore di quella Carta è la persona e la dignità che mai le può essere sottratta. Abbiate ancora fiducia nelle persone: in voi, negli altri; credete che le cose miglioreranno, che voi le migliorerete vivendo onestamente: solo buoni cittadini fanno buone istituzioni. Impegnatevi: c’è tra voi certamente qualcuno che saprà ridare dignità anche alla politica, riportandola al suo compito più alto: immaginare società più libere e giuste. E questo Paese ha disperatamente bisogno di politica buona e sana.

Una politica che, da quando ci si è dati una Costituzione intrinsecamente antifascista, dovrebbe (uso il condizionale) essere tutta, naturalmente, antifascista! Né, d’altra parte, è pensabile che i valori Resistenziali siano esclusivi di questo o quel partito: guai a cedere alla tentazione di credere l’antifascismo presupposto solo di pochissimi “puri”: è la maniera migliore per rendere faziosi dei principi che invece dovrebbero costituire le premesse democratiche e non negoziabili del confronto politico in un Paese civile. Anzi: il tratto vittorioso di quella lotta fu proprio l’avere unito ogni anima antifascista nella battaglia contro il nazifascismo, anche quella di chi agì non in nome di un ideale politico ma in nome di quei moti di stomaco che dovrebbero farci sussultare sempre davanti alla sopraffazione! Allora per la prima volta migliaia di giovani – come nemmeno nel Risorgimento – hanno unito sforzi e intenti per far nascere un’Italia libera di decidere di sé attraverso il faticoso lavoro della discussione democratica. Apprendere l’antifascismo… io oso affermare che più facile per i giovani di allora che per i giovani d’oggi; allora, nel momento in cui tutto crollava, era possibile anche una “scommessa sul mondo”, disfarsi di ciò che di corrotto e ingiusto il fascismo aveva prodotto, disfarsi di uno Stato sempre forte con i deboli e debole coi forti.

Il prezzo, però, fu una guerra. La sfida che tocca non solo agli insegnanti, ma a tutti noi che viviamo in questo complicato e straordinario patto di cittadinanza che si chiama democrazia è difficile, perché si capiscono meglio le cose che si provano rispetto a quelle che si immaginano e perché la democrazia, per fortuna, lascia spazio alla parola di tutti, anche di chi non la pensa come noi. La sfida è far comprendere quali siano i valori fondamentali per ogni uomo senza arrivare a far sì che se ne accorga perché privatone: infatti, se non lo difendiamo, il grado di civiltà in cui viviamo potrebbe anche regredire. Gian Maria Volonté, nei panni del partigiano Otello Pighin-“Renato”, si chiede «se dopo, 20 o 30 o 70 anni dopo che la guerra sarà finita ci sarà di nuovo un periodo in cui la gente si lascerà anestetizzare da un po’ di pace e di abbondanza, se per questo si sarà pronti a lasciar perdere tutto un’altra volta, la libertà un’altra volta… allora c’è solo la lotta».

È perché non ci fosse più bisogno di lotte che i Resistenti ci lasciarono, fissata nero su bianco, questa Costituzione; la società in cui viviamo oggi è quella che ieri, a prezzo del sangue, seppero sognare i partigiani. Attualizzare quel passato significa scegliere ancora, di nuovo, quanto di buono, onesto e giusto esso seppe manifestare; l’eredità morale e storica di un Paese, specie quando alle spalle ci sono memorie diverse e non condivise, non viene calata dall’alto, ma deve essere scelta consapevolmente. Per questo 70 anni dopo, io vi dico e vi chiedo di scegliere ancora l’eredità della Resistenza antifascista. E so che può suonare retorico, ma lo dico perché è sincero: Viva la Resistenza, viva l’Italia!

Irene Barichello