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Scioperi del marzo '44

Il 1° marzo 1944 i lavoratori delle fabbriche delle regioni d'Italia ancora occupate dai tedeschi e dai fascisti scendono in sciopero: per una settimana la grande industria italiana si ferma e così la produzione per la Germania. Epicentri del grande movimento di lotta sono le città di Torino e di Milano, dove gli operai vivono ormai in condizioni di estrema precarietà e sono perennemente sottoposti alla minaccia – che per molti di loro è realtà – della deportazione. In Piemonte, soprattutto a Torino, entrano in sciopero i lavoratori della Fiat, di tutte le aziende collegate e di molte altre (cfr. http://www.istoreto.it/to38-45_industria/cronologia.htm), mentre in Lombardia quelli dell'Alfa Romeo, della Breda, della Ercole Marelli, della Falck, della Innocenti, della Isotta Fraschini, della Dalmine e di altre. Alla protesta partecipano anche gli operai toscani delle Officine Galileo e della Pignone, e in Emilia Romagna quelli delle Officine Meccaniche Reggiane e della Ducati. A Genova, che dovrebbe essere un altro degli epicentri dello sciopero, l'agitazione invece non riesce.

Gli stabilimenti che partecipano alla protesta hanno al proprio interno CLN aziendali, Gruppi di difesa della donna, SAP e altri organismi, e prendono parte alle agitazioni – alcune di rilievo – dal marzo del 1943, per continuare così fino alla liberazione.

A Torino, dove le proteste post-armistiziali sono iniziate nel novembre e proseguite nel dicembre 1943, e poi nei mesi di gennaio e febbraio 1944, lo sciopero generale scatta nonostante le “ferie” imposte dalle autorità di governo piemontesi il 29 febbraio. Il 1° marzo, con tutte le fabbriche ferme, il capo della provincia, Paolo Zerbino, ordina la ripresa del lavoro, minacciando la chiusura degli stabilimenti, con perdita delle retribuzioni, arresti e deportazioni, licenziamenti e annullamento dell'esonero per i lavoratori che hanno l'obbligo del servizio militare. Ciononostante, lo sciopero continua, coinvolgendo anche le maestranze di stabilimenti minori, almeno fino al 6 marzo. Le formazioni partigiane delle valli vi partecipano interrompendo alcune linee di collegamento. La conclusione definitiva dello sciopero, stabilita dal comitato di agitazione interregionale, avviene l'8 marzo, quando il lavoro riprende.

Anche a Milano e in tutta la sua area industriale – già interessata da settimane di proteste nel dicembre 1943-gennaio 1944 (per la Franco Tosi, cfr. G. Restelli, La retata nazifascista alla Franco Tosi 5 gennaio 1944, http://www.anpilegnano.it/index.php/la-resistenza/81-la-resistenza/124-…) – lo sciopero assume subito un carattere generale. Accanto agli operai delle fabbriche, si fermano dal 2 al 4 marzo i tranvieri, che paralizzano il trasporto pubblico della città. In Lombardia si calcolano in totale circa 350.000 scioperanti (P. Secchia, F. Frassati, Storia della Resistenza. La guerra di Liberazione in Italia 1943-1945, Roma, Editori Riuniti, 1965, vol. I, p. 475).

La repressione è molto dura – minacce di morte e occupazione delle fabbriche da parte della RSI e dei tedeschi, arresti, deportazioni: sono più di cento gli operai della Fiat finiti in Germania, quattordici quelli della Innocenti (dodici non torneranno), undici quelli della Ercole Marelli (tre non torneranno) (B. Maida, Fiat, P. Soddu, Innocenti e D. Adorni, Breda e Ercole Marelli, tutti in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi, Dizionario della Resistenza, Torino, Einaudi, 2006, pp. 522, 535, 539 e 545) – ma l'organizzazione dello sciopero riceve il sostegno del CLNAI e alle rivendicazioni economiche si affiancano subito anche quelle politiche, contro la guerra e l'occupazione nazifascista.

Quello del marzo 1944 è il primo e solo grande sciopero generale avvenuto nell'Europa occupata dal nazifascismo: l'elemento della lotta operaia e di classe si affianca a quello della lotta partigiana, e ciò determina una delle specificità principali della Resistenza italiana nel contesto di quella europea.

Le richieste degli scioperanti sono, come già detto, solo apparentemente economiche, poiché attraverso la richiesta di un miglioramento della condizione operaia, si innestano le parole d'ordine della lotta resistenziale. Gli scioperi hanno, quindi, un esplicito significato antifascista e antinazista. Il loro obiettivo immediato è la cessazione delle deportazioni di manodopera e dei trasferimenti di macchinari e impianti in Germania; attraverso tali rivendicazioni si punta a sospendere o ridurre al minimo la produzione di guerra.

Oltre a ciò, si chiede il blocco dei prezzi dei generi alimentari, l'aumento dei salari e delle razioni, il pagamento delle gratifiche già concesse.

Nonostante gli scarsi risultati materiali, gli scioperi sono un segnale inequivocabile per la RSI e gli occupanti nazisti. Essi «rappresentano – ha scritto Maida – […] uno spartiacque, a partire […] da una contraddizione di fondo: le agitazioni operaie risultano un grande successo sul piano organizzativo e politico poiché la mobilitazione operaia appare senza precedenti e trova un sostegno uniforme da parte di tutte le forze del Cln; nondimeno il suo sviluppo è incerto e i risultati limitati in quanto le rivendicazioni avanzate si concretizzano in modo assai parziale» (B. Maida, Scioperi, in Ivi, p. 558).

(Fonte generale: Operai e contadini nella crisi italiana del 1943/1944, Milano, Feltrinelli, 1974. In particolare, i saggi di C. Dellavalle e L. Ganapini e su Torino e Milano)

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