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L'ultima intervista a Maria Cervi

Avevo intervistato Maria Cervi (figlia di Antenore, uno dei sette fratelli Cervi fucilati dai fascisti nel dicembre 1943) nel giugno del 2007 per una serie di articoli in vista del convegno “Il sapore giovane della resistenza” e ci eravamo lasciati con l’impegno di rivederci in quella occasione (domenica 24 giugno 2007). L'incontro era stato organizzato a Vicenza nell’ambito di Festambiente, ma purtroppo Maria ci aveva lasciato pochi giorni prima della manifestazione vicentina.

Inevitabilmente questa sua testimonianza (forse la sua ultima intervista) ha finito per acquistare un valore particolare.

Qual è, a suo avviso, l’importanza, l’attualità della Resistenza per la democrazia nel nostro paese?

Per me la Resistenza è ancora, nei fatti, il momento della nascita della Repubblica, della rifondazione democratica. Non sono invece convinta che questa consapevolezza sia presente in tutta la popolazione. A volte mi sembra venga dato per scontato. Forse non è stato fatto abbastanza per conservare la memoria di quanto è avvenuto. Temo che in questi ultimi sessant’anni ci siamo un po’ “distratti” e ora i risultati si vedono. D’altra parte penso anche che negli ultimi anni (diciamo dal cinquantesimo al sessantesimo della Resistenza) ci sia stata una ripresa, un recupero sia da parte delle istituzioni che dei partiti, della scuola…

Da questo punto di vista, il sacrificio dei fratelli Cervi resta un esempio ancora molto significativo. Ritiene sia importante anche per i giovani?

Parlando con molte delle persone che vengono al museo mi sembra di capire che resta un esempio emblematico. In maggioranza i visitatori sono giovani, soprattutto studenti. Il fatto di voler sapere, visitare la casa, lasciare dei “segnali” esprime interesse, attenzione. Evidentemente rimane un segno molto forte. Anche andando in giro per l’Italia in occasione di conferenze o manifestazioni scopro continuamente sale, circoli, scuole …a loro dedicati. Talvolta rimango stupita perché la cosa va ben oltre quello che mi sarei aspettata. Incontro molte persone che conoscono sia i loro nomi che episodi della loro vita, come quello del trattore e del mappamondo…

Ce ne può parlare?

Nel 1939 (io avevo cinque anni) comprarono un trattore, all’epoca un elemento sicuramente innovativo dato che nessuna azienda di piccole dimensioni lo possedeva. Al momento dell’acquisto si fecero regalare un mappamondo, un simbolo di modernità ma anche di cultura, della volontà di scoprire il mondo, gli altri popoli…E molti mi chiedono “ma dov’è il trattore, dov’è il mappamondo?” con un riferimento preciso, molto diretto. Oggi sono entrambi conservati nel museo gestito dall’”Istituto Nazionale Alcide Cervi”. Il trattore è stato la scelta ultima, preceduta da un lungo percorso di innovazione per adottare sistemi nuovi di coltivazione. Tutta la loro vita era indirizzata in questa direzione. C’era stata, per esempio, la scelta della coltivazione di prato stabile per intensificare la produzione di latte e quindi del parmigiano. Risaliva al 1938 un progetto di abbeveraggio automatico per le mucche. Qui da noi negli anni trenta il pascolo non esisteva più e non c’erano quasi più gli abbeveratoi. L’acqua veniva portata nelle stalle con i secchi, un lavoro assai faticoso. Prima di installare l’abbeveratoio, completarono l’ampliamento delle stalle. Quando nel 1934 (io avevo tre mesi) andammo ad abitare in questa casa dove ora c’è il museo, c’era la possibilità di tenere solo otto capi di bestiame. Nel 1943, al momento del loro arresto, ce n’erano cinquantasei.

Possiamo dire che la famiglia Cervi rappresentava un fattore di discontinuità rispetto alla situazione tradizionale nelle campagne?

Le loro iniziative erano circondate sia da curiosità che da perplessità da parte degli altri contadini. Rientrava nel loro atteggiamento anche la a scelta, nel 1934, di lasciare la mezzadria per diventare affittuari, per avere maggiore libertà. Ritenevano che l’affittuario, una volta pagato l’affitto, fosse più libero di agire, di innovare. Il proprietario di questa casa era un medico condotto che acconsentiva a questi interventi. L’ampliamento delle stalle venne fatto in “acconto d’affitto”.

Contemporaneamente cresceva anche il loro impegno politico. Come ebbe inizio?

La formazione della loro coscienza politica comincia ancor prima del ’34. C’erano dentro di loro questi valori di giustizia sociale, di libertà. Dicevano che non era giusto “se noi stiamo bene e gli altri no”. Naturalmente ci furono alcuni episodi determinanti. Nel ’29 Aldo, mentre era militare, venne ingiustamente condannato a cinque anni di carcere che poi diventarono due anni di confino a Gaeta. Qui avvenne l’incontro, sicuramente importante, con alcuni esponenti politici confinati. Al ritorno di Aldo ci fu un confronto con gli altri fratelli e fu in quel periodo che diventarono comunisti.

Quali erano i valori della famiglia Cervi?

Era una famiglia di cattolici praticanti e alcuni di loro cominciarono a chiedersi come portare avanti quei valori, con coerenza. Un altro momento importante risale al 1936 quando Ferdinando venne richiamato dall’esercito per andare in Africa. La nostra famiglia non era d’accordo, dato che non riteneva giusto andare a combattere contro un altro popolo. Da parte di Ferdinando ci fu anche un intenso confronto con il suo confessore, in chiesa. Lo zio non si lasciò convincere e infatti non andò in guerra. Con questi avvenimenti comincia la loro ribellione al fascismo, ma soprattutto lo studio, l’elaborazione…Il nonno (“papà Cervi” nda) diceva che “loro non erano cambiati, avevano solo cambiato strada”. Forse pensavano che certi valori non erano abbastanza difesi. Talvolta è necessario anche qualche sacrificio, come appunto con la Resistenza, un maggiore impegno per la Pace, la libertà, soprattutto per la democrazia. Questi principi non devono ridursi a dei “piccoli monumenti” belli e importanti; devono anche essere vissuti, messi in pratica. Mi è piaciuto il messaggio del presidente della Repubblica a capodanno. Parlando della partecipazione ha citato Giacomo Olivi, un partigiano fucilato a Modena nel ’44, quando scrisse “Non dite di essere stanchi”. E’ un richiamo che porto sempre con me e, quando posso, cerco di trasmetterlo, soprattutto ai giovani. In fondo è lo stesso messaggio di don Milani quando diceva “mi riguarda, me ne devo occupare”. Ecco, forse oggi è questo l’aspetto più preoccupante: il distacco, l’indifferenza, la mancanza di prospettiva.

Ha parlato di “papà Cervi”. Cosa ricorda dei suoi nonni?

Il nonno era iscritto al Partito popolare dal 1924. Al museo abbiamo conservato la sua tessera firmata da don Luigi Sturzo. Alla fine i valori guida erano gli stessi. C’è chi ha creduto di continuare a difenderli in un modo e chi ne ha cercato un’ altra strada. E’ significativo poi che le “due strade” si siano ritrovate nella Resistenza. Anche mia nonna Genoeffa è morta cattolica praticante, nell’ottobre 1944, dieci mesi dopo la fucilazione dei suoi figli. E anche lei aveva avuto i suoi “momenti di ribellione”. Si era appena sposata e nella stanza dove dormivano, pioveva regolarmente dal tetto in cattive condizioni. Lei, per quanto timorosa, aveva chiesto invano al padrone di ripararlo. Allora ha fatto un bel buco nel pavimento, in modo che l’acqua cadesse proprio sul letto dei padroni che dormivano nella stanza sottostante. Naturalmente il tetto venne riparato prontamente. Mia nonna non ha neanche voluto dare “l’oro e il rame per la Patria” come chiedeva Mussolini. Diceva che “non è giusto dar via la fede che mi ha donato mio marito”. C’era quindi questo senso innato della giustizia da cui non ci deve discostare.

Gianni Sartori