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Antisemitismo italiano: indifferenti e delatori

Le leggi razziali introdotte dallo stato italiano nel 1938 non si inseriscono in un contesto avulso, fino ad allora, da mentalità e pratiche di tipo antisemita. Va rilevato, anzi, che “il tessuto sociale e culturale italiano, e ancor più gli organismi e gli apparati del regime, si mostra[no] […] tutt'altro che impreparati ad accogliere e mettere in pratica la legge della segregazione”, sebbene non manchino, “nella società civile e religiosa, sentimenti di opposizione alla legislazione stessa” (G. Luzzatto Voghera, Antisemitismo, in Dizionario del fascismo, a cura di V. de Grazia-S. Luzzatto, Torino, Einaudi, 2003, v. 1, pp. 80). Come in altri paesi europei, in Italia si diffonde, a partire dalla fine dell'Ottocento e sulla scorta di un radicato pregiudizio di tipo religioso, una pubblicistica di stampo antisemita che si basa però su una polemica ormai “modernamente” politica. È tuttavia dopo la Grande guerra, ancora sull'onda lunga di fenomeni sovranazionali, che “l'antisemitismo inizi[a] davvero a pesare nella politica e nella società italiana” (Ivi, p. 81). Nel 1921 è pubblicata, a cura di Giovanni Preziosi – futura “figura di punta dell'antisemitismo fascista” (ibidem) – la traduzione italiana dei Protocolli dei Savi anziani di Sion, un documento falso prodotto all'inizio del secolo nella Russia zarista e da allora in poi sfruttato come “prova” della congiura ebraica mondiale.

Nei primi anni del fascismo al potere, la polemica antigiudaica è esercitata in particolare dalle frange più estreme del partito, che insistono “sui temi più vieti della vulgata antisemita: la connessione fra ebraismo, bolscevismo e massoneria; la rappresentazione dell'ebreo come ultima trincea dell'antifascismo” (Ivi, p. 82). La vera svolta antisemita, in Italia, si ha però con la guerra d'Etiopia; all'interno della propaganda di regime, si afferma infatti, velocemente, il concetto della superiorità razziale dei “puri italiani” rispetto alle popolazioni africane. Il passo verso la legislazione razzista è breve: fin dal 1935 una feroce campagna di stampa si concentra su temi antisionisti e antisemiti, e nel triennio successivo gli stessi ebrei italiani diventano un ricorrente obiettivo polemico. Le leggi razziali del 1938 sono introdotte in un paese pronto ad accoglierle con indifferenza e condiscendenza, quando non con benevolenza.

Quest'ultimo atteggiamento si riscontra facilmente nel caso dei delatori, cioè gli italiani “ariani” pronti a denunciare membri della comunità ebraica per reati quali il possesso di apparecchi radiofonici o l'assunzione di personale di servitù di "razza ariana".

Fin dal 1938 il ministero dell'Interno riceve decine di memoriali anonimi che segnalano persone da "eliminare", così come non mancarono, in alcune città italiane, scritte murali inneggianti a Hitler e alla politica di discriminazione razziale. Anche chi, tra mille cautele, è riuscito a mantenere un minimo di attività lavorativa e di vita sociale, viene immediatamente segnalato. La persecuzione degli ebrei italiani e degli ebrei stranieri rifugiatisi in Italia si muove, quindi, tra gli estremi dell'indifferenza e della collaborazione da parte degli italiani auto-definitisi “ariani”.

Tra l'estate del 1940 e quella del 1943 circa 400 ebrei italiani antifascisti e 6.000 ebrei stranieri vengono internati in campi di concentramento o confinati (M. Avagliano-M. Palmieri, Di pura razza italiana. L'Italia “ariana” di fronte alle leggi razziali, Milano, Baldini&Castoldi, 2013, p. 286). La condanna scaturisce spesso da comportamenti privati segnalati per via anonima alle autorità.

L'8 settembre 1943 segna lo spartiacque tra la fase della negazione dei diritti e quella della persecuzione contro la vita, con l'avvio delle deportazioni su larga scala.