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Fedor Poletaev, sergente dell'Armata rossa morto per la libertà in Italia

Il 2 febbraio 1945 si è combattuta la battaglia di Cantalupo. Nel 70° anniversario della Liberazione e del sacrificio del partigiano Fedor Poletaev, il 21 febbraio, Cantalupo gli ha reso omaggio. Fedor era un sergente dell’Armata Rossa diventato partigiano in Italia sull’Appennino Ligure. Il 2 febbraio 1945, venne ucciso nel tentativo di proteggere alcuni compagni, proprio a Cantalupo, durante un violento scontro con le milizie nazifasciste.

Il 21 febbraio a Cantalupo Ligure, il prof. Renato Balduzzi ha tenuto l'orazione ufficiale.

Ne riportiamo di seguito il testo.

Siamo qui, settant'anni dopo, a fare memoria della Liberazione e del sacrificio di Fedor Poletaev, soldato russo la cui morte per liberare una terra che non era la sua ha assunto un valore in qualche modo universale.
Mi ha sempre colpito la circostanza che, nei primi anni dopo gli avvenimenti sovente tragici di quell'epoca, gli incontri volti a fare memoria di quei fatti si caratterizzassero per la prevalenza, in essi, del silenzio, di un grande silenzio, come se la memoria stessa non potesse trovare parole adeguate per dare conto di quella sofferenza, di quell'angoscia anche. E allora il silenzio, il restare muti poteva e può ancora apparire come la forma più evidente per dare rilievo al mistero della violenza, delle guerre, del male fatto da un uomo a un altro uomo. E, in fondo, nell'etimologia della parola mistero c'è proprio lo stare muti, chiusi di fronte a un enigma.
Nel corso degli anni le "orazioni" ufficiali hanno sostituito il grande silenzio, ma credo che di quel primo periodo noi dobbiamo conservare il senso di meditazione e di silenzio, attraverso soprattutto una sobrietà delle parole.
La presenza delle ragazze e dei ragazzi delle scuole elementari mi induce a cominciare proprio da loro, dalla cultura in cui essi sono immersi e nativi che noi, meno giovani, avviciniamo con qualche maggiore incertezza e titubanza. È la cultura del messaggio breve, del cinguettio, che esprime la modalità oggi prevalente della comunicazione. Una cultura dilagante, tanto che proprio qualche giorno fa una sentenza del Consiglio di Stato, a proposito di un tweet di un ministro che annunciava un intervento su un problema specifico riguardante un determinato bene culturale, ha dovuto chiedersi quale sia l'efficacia da dare a questo tipo di comunicazione, quando è impiegata nell'attività politica e persino amministrativa. Una cultura che offre tanti vantaggi in tema di immediatezza, efficacia, tempestività della comunicazione, ma che comporta qualche difficoltà supplementare quando, come oggi, si vuole fare memoria di comportamenti del passato, in quanto è più difficile, in questo contesto comunicativo, rappresentarsi e dar conto della complessità delle situazioni storiche, dove bene e male, torti e ragioni tendono a confondersi e a intrecciarsi, così che comprenderne la complessità diventa il solo modo per dare un giudizio storico e quindi per poterci rapportare, qui e ora, a quelle situazioni, per tentarne una risposta educativa, capace cioè di estrarre dalla nostra esperienza storica i materiali di base per esprimere il nostro protagonismo.
Ecco perché è allora indispensabile l'approccio della scuola alla Resistenza, un approccio capace di restituirne la complessità come condizione per poter comprendere e dare un giudizio.
La narrazione della Resistenza è evidentemente il punto di partenza: per noi, oggi, è la narrazione di uno dei suoi episodi più emblematici, appunto la morte donata di Fëdor Andrianovic Poletaev, quel sergente dell'Armata rossa, padre di famiglia, sposato con tre figli, catturato dai tedeschi e deportato in Italia, fattosi partigiano e caduto nella battaglia di Cantalupo Ligure il 2 febbraio di settant'anni fa. Il gigante Fiodor, come lo chiamarono i partigiani suoi compagni.
Ma la narrazione, perché non rimanga esterna a ciascuno di noi, semplice notizia o nozione destinata a essere soppiantata da altre notizie e nozioni, richiede un nostro coinvolgimento, la capacità di rispondere alla domanda su che cosa avremmo fatto noi in quel momento, quale sarebbe stata la nostra risposta, da spettatori passivi e scettici, oppure da protagonisti coinvolti e impegnati. Perché questo coinvolgimento avvenga è però necessaria una condivisione almeno minima della narrazione.
E qui ci scontriamo con un problema non ancora risolto, quello della pluralità delle narrazioni tra chi fece una scelta di campo e chi non la fece o fece quella del campo opposto. Ancora oggi la memoria non è pacificata, la Resistenza rimane divisiva. Anzi, proprio parlare di pacificazione della memoria rischia di suonare ambiguo, se non chiariamo bene che cosa vogliamo intendere. Memoria pacificata non vuol dire, non può voler dire memoria pasticciata o, peggio, mistificata. Ci vogliono punti fermi, che proprio l'esperienza della scuola può aiutare a mettere in evidenza e a sottoporre alla riflessione della coscienza di ciascun studente.
Vi propongo un punto fermo, e lo riprendo non da considerazioni mie, ma da un passaggio del messaggio che il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella ha rivolto alle Camere nel giorno del suo giuramento, lo scorso 3 febbraio. Ricordato che il Presidente della Repubblica è il garante della Costituzione e che la garanzia più forte della Costituzione consiste nella sua applicazione, nel viverla giorno per giorno, il presidente si è chiesto che cosa significhi garantire la Costituzione e ha detto con chiarezza che, tra l'altro, "significa ricordare la Resistenza e il sacrificio di tanti che settanta anni fa liberarono l'Italia dal nazifascismo". Ecco, questo è un punto fermo, è una memoria pacificata e non pasticciata.
La Costituzione, appunto. Uno dei suoi principali estensori, Giuseppe Dossetti, ebbe a ricordarne la genesi e a sottolineare che essa "porta l'impronta di uno spirito universale e in certo modo transtemporale". Cerchiamo di capire insieme che cosa volesse dire Dossetti. Egli non negava che alla base della Costituzione ci fossero state le vicende italiane del fascismo e del postfascismo, la Resistenza anzitutto, né il confronto-scontro tra ideologie. Ma sottolineava che alla base della Costituzione c'è stata la grande sofferenza del popolo italiano, i sei lunghi anni della seconda guerra mondiale. Le tre firme, emblematiche, apposte alla promulgazione della Costituzione il 27 dicembre 1947 (quella del capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, erede della tradizione liberale; quella del presidente dell'Assemblea Costituente Umberto Terracini, fondatore con Gramsci e Togliatti, del partito comunista italiano e quella del Presidente del Consiglio dei ministri Alcide de Gasperi, primo successore di Luigi Sturzo alla segreteria del partito popolare), diventano così, in questa lettura, la testimonianza di una narrazione e di un coinvolgimento.
Una Costituzione che va conosciuta e garantita tutta, in tutte le sue parti: quando fa rimare solidarietà e sussidiarietà, quando richiama i diritti della famiglia e al tempo stesso quelli dei diritti singoli nelle altre formazioni sociali, quando afferma la centralità del lavoro dipendente e non dimentica peraltro le ragioni dell'impresa e dell'iniziativa economica privata. Sta a noi, alle generazioni che la devono applicare, trovare il giusto equilibrio tra principi nessuno dei quali può venire totalmente sacrificato.
Una Costituzione che il Parlamento italiano sta aggiornando e che non dobbiamo stravolgere.

Qui il discorso si fa ovviamente delicato e non può, in questa sede, che essere accennato. Siamo alla vigilia di una svolta autoritaria, come temono molte voci, anche autorevoli, della cultura e della politica? Oppure stiamo semplicemente arrivando alla conclusione di un lungo e sinora infruttuoso tentativo di ritocco costituzionale, per adeguare alcune parti della carta costituzionale al cambiamento senza intaccarne il nucleo essenziale? Per poter dare una risposta non superficiale a domande così impegnative dobbiamo chiederci quale sia il nucleo di una Costituzione e la risposta non può che essere trovata in un testo antico, ma sempre utile: l'art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 24 agosto 1789, secondo cui "ogni società nella quale la garanzia dei diritti non sia assicurata e la separazione dei poteri non sia determinata, non ha affatto una Costituzione". Dunque Costituzione è garanzia dei diritti e separazione effettiva dei poteri.

L'intreccio tra una riforma elettorale fortemente maggioritaria e distorsiva, in senso tecnico, della rappresentanza e una revisione costituzionale che incarna la rappresentanza nella prima Camera rendendo marginale la seconda, senza cambiare significativamente le maggioranze richieste per la formazione degli organi di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, Consiglio superiore della magistratura) mette in discussione quel nucleo forte della Costituzione? Non voglio dare qui la risposta, ma semplicemente dire che la domanda è legittima e che la vera risposta sta forse nelle conclusioni del già citato discorso del Capo dello Stato: "garantire la Costituzione significa affermare e diffondere un senso forte della legalità".
Concludo. In alcune sue poesie, e anche in un volume intitolato "Mi guarda Siena", uno dei più grandi poeti italiani, Mario Luzi, immagina di tornare nella città tanto amata e non soltanto di guardarla, ma che essa guardi il poeta. Ecco, questa immagine può riguardare anche il nostro rapporto con la Resistenza, con quei fatti, con quegli eroismi, con quelle scelte difficili: non siamo soltanto noi a ricostruire quelle narrazioni, a fare memoria di quei fatti.
È la Resistenza tutta, è oggi Fiodor con il suo sacrificio che ci guarda e ci chiede: e tu, che cosa avresti fatto? E tu, che cosa fai ora per vivere giorno per giorno quella Costituzione che è nata da quelle sofferenze? Conosci la Resistenza, conosci la Costituzione?
Soltanto rispondendo con sincerità a queste domande possiamo ripetere oggi, senza arrossire: viva l'Italia, viva la Resistenza, viva la Costituzione!