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Deportazioni coloniali

Nel giugno del 1930, per togliere ai ribelli ogni sostegno da parte della popolazione, i marescialli Graziani e Badoglio decidono di creare dei campi di concentramento dove destinare le popolazioni nomadi e seminomadi del Gebel che hanno dato appoggio alla resistenza anti-italiana. La deportazione nei campi non solo rompe ogni legame tra la popolazione e i ribelli, ma elimina anche ogni possibilità di auto-sussistenza per le comunità. In sei campi principali e in alcune strutture più piccole, e in località totalmente inospitali come la Sirtica, vengono deportate, dopo lunghe marce forzate, circa 100.000 persone (A. Del Boca, Gli italiani in Libia, Milano, Mondadori, 1994, vol. II, p. 182), con tutti i loro beni e le loro greggi (circa un milione di animali). Sono costrette a vivere in aree ristrette, ai limiti della sopravvivenza, come racconta Reth Belgassem: "Ci davano poco da mangiare. Dovevamo cercare di sopravvivere con un pugno di riso o di farina e spesso eravamo troppo stanchi per lavorare". Le violenze sono quotidiane: "Ricordo la miseria e le botte. Ogni giorno qualcuno si prendeva la sua razione di botte. E per mangiare ricordo solo un pezzo di pane duro del peso di centocinquanta o al massimo duecento grammi, che doveva bastare per tutto il giorno" (testimonianza di Mohammed Bechir Seium, citata, come quella di Belgassem, da E. Salerno, Genocidio in Libia, Milano, Sugarco, 1979, pp. 99 e 90).

Le condizioni sanitarie, ad esempio, sono drammatiche. A Soluch, i ventimila internati hanno a disposizione un solo medico, che deve occuparsi anche dei tredicimila reclusi nel campo di Sidi Ahmed el Magrun (A. Del Boca, Gli italiani in Libia, cit., vol. II, p. 185). In breve tempo scoppiano epidemie di tifo alle quali non si riesce a far fronte a causa dell'assoluta mancanza di medicinali, personale e strumentazione. Nel campo di Soluch, attivo tra l'ottobre del 1930 e il maggio del 1933, muoiono circa 5.500 internati, pari al 27,5% della popolazione detenuta; in quello di Sidi Ahmed el Magrun, che apre i battenti nel settembre 1930 e li chiude nell'ottobre di tre anni dopo, muoiono 4.500 persone, cioè il 34,4% degli internati (dati tratti da http://www.campifascisti.it/index.php e G. Ottolenghi, Gli Italiani e il colonialismo. I campi di detenzione italiani in Africa, Milano, Sugarco, 1997). Tra il 1930 e il 1931 muore il 90-95% del bestiame (G. Rochat, La repressione della resistenza in Cirenaica nel 1930-31, nei documenti dell'archivio Graziani, “Il Movimento di Liberazione in Italia”, 110, 1973).

La popolazione del Gebel, rinchiusa nei campi, diviene inoltre un serbatoio di manodopera a basso costo da utilizzare nelle opere pubbliche, soprattutto stradali.

In una lettera a Graziani (20 giugno 1930), Badoglio scrive: "Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla fino alla fine, anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica" (cit. in G. Rochat, La repressione…, cit.).

Ancora, per togliere ai ribelli l'aiuto che proviene dall'Egitto, dove si sono rifugiati migliaia di libici, viene proibito alle popolazioni della Cirenaica ogni tipo di commercio con quel paese e, a questo scopo, nel 1931 viene innalzata una barriera di filo spinato lungo i 270 chilometri tra il porto di Bardia e l'oasi di Giarabub, il cui tracciato è controllato da fortificazioni terrestri e ricognizioni aeree.

Si tratta di un vero e proprio regno del terrore: migliaia di esecuzioni, villaggi saccheggiati o costretti a piegarsi per fame, rappresaglie selvagge contro le comunità beduine sono gli strumenti dell'occupazione italiana dei territori.